La storia travagliata di un raro caso di narcolessia familiare
IL NOSTRO INCONTRO CON LA NARCOLESSIA
PREMESSA
Ho deciso di raccontare la nostra storia, perché vorrei che la sofferenza di questi anni possa in qualche modo trasformarsi in incoraggiamento per quelle famiglie che vivono in solitudine la malattia di un figlio. Si tratta solo di “restituire” parte di quanto noi abbiamo ricevuto in vicinanza, attenzione ed incoraggiamento.
E’ una storia “anonima” nel senso che non compariranno i nostri nomi, per tutela dei nostri ragazzi i quali non vogliono “diventare famosi per una storia brutta”. Mi sarebbe piaciuto riuscire a scrivere in modo allegro e spiritoso, devo ammettere che ci ho anche provato, il titolo sarebbe stato: ”I belli addormentati”, ma l’esito era scadente. Per raccontare tramite questa modalità occorre un certo distacco emotivo che io non ho ancora raggiunto. Spero comunque che non si tratti di una lettura troppo pesante.
Tutte le malattie mandano in crisi, ma se si tratta di un’asma, bronchite…, sono fastidiose, peggiorano la qualità di vita, ma bene o male si sa cosa fare. Le cure della medicina tradizionale sono certe, così come quelle della medicina alternativa, ai genitori il dubbio di scegliere quale strada seguire. Se invece si tratta di argomenti psicologici, neurologici o psichiatrici, tutto diventa più complesso, incerto. Se poi si parla di malattie rare allora occorre davvero anche fortuna, fortuna in una diagnosi se non tempestiva, almeno accettabile nei tempi. In questo campo infatti c’è ancora molto da scoprire e soprattutto c’è un’ignoranza diffusa, per cui il comunicare le proprie problematiche spesso crea ulteriori difficoltà, perchè inconsciamente le persone informate spesso cambiano il proprio comportamento nei confronti della persona in difficoltà.
In questi anni di “pellegrinaggi fra medici” ci siamo posti un sacco di domande a cui non abbiamo trovato risposta o peggio, abbiamo trovato risposte inadeguate, inopportune e sbagliate.
A volte sarebbe meglio incontrare la sincerità professionale di chi sa ammettere la propria ignoranza ed il limite della scienza che ancora ha molto da scoprire, piuttosto che ricevere giudizi gratuiti sull’incapacità genitoriale. Eppure un genitore vorrebbe sapere cosa può/deve fare per gestire una situazione che non ha scelto, che gli è “piovuta addosso” e che, suo malgrado, deve gestire cercando di sopravvivere continuando a lavorare, a crescere gli altri figli nella massima serenità possibile… Un genitore deve poter continuare a sperare, o almeno deve poter avere la certezza che in questo percorso la sua famiglia non sarà lasciata sola.
Nonostante tutto speravo che la medicina, i medici si occupassero più di noi. All’inizio era un “provi questo..”, dopo qualche giorno di speranza eravamo punto e a capo, o i farmaci non servivano o gli effetti collaterali erano tali per cui dovevamo sospendere la terapia. Poi ad un certo punto abbiamo avuto l’impressione di essere il “caso interessante da manuale” da seguire e poi l’operazione “scarica barile” fra specialisti, perchè non eravamo mai di loro di stretta competenza.
Una riflessione: se è già difficile per i medici capire l’origine di tanti mali, figurarsi per un genitore…come fa a conoscere qual’è lo specialista di competenza quando le problematiche si intersecano?
La processione fra specialisti, centri malattie rare, crea all’inizio sgomento, poi illusione, speranza e a seguire incertezza, scoraggiamento, svuotamento interiore, destabilizzazione vera e propria. Purtroppo spesso ci si accorge di essere un caso, uno dei tanti casi che serve solo per fare statistica. Capita con troppa facilità di sentirsi trattati con sufficienza, pregiudizio. Il parere dei genitori, viene spesso sottovalutato, semplicemente perché essi sono considerati inaffidabili a priori, per il solo fatto di essere troppo coinvolti psicologicamente.
Il comunicare produce effetti negativi e allora? Non resta che chiudersi, prendere il proprio dolore, sfogarsi quando si è soli ed andare avanti per non peggiorare le cose, sperando che prima o poi possa capitare qualcosa. Si vive in perenne attesa di un ipotetico evento in grado di far migliorare la situazione.
Internet è così diventato il mio compagno quotidiano per la continua ricerca di notizie di tipo medico, scambi di domande, ma non ho trovato il racconto di esperienze che in qualche modo potessero esserci utili ad affrontare questo periodo della vita. Cercavo suggerimenti, spunti, racconti di vita che almeno ci aiutassero a sentirci normali nell’affrontare le varie problematiche che via via si presentavano.
Mi auguro che queste righe possano servire a divulgare le informazioni su questa patologia, perché sei anni per giungere ad una diagnosi sono un tempo eterno, inaccettabile, soprattutto se si tratta di bambini. Non voglio dire che sia un tempo giustificabile per gli adulti, ma che un adulto ha una personalità già formata, invece il bambino rischia di rimanere scioccato ed influenzato negativamente da ciò che purtroppo rischia di sentirsi dire e o prescrivere dai vari medici. La preoccupazione, la tensione e la paura che conseguentemente nascono, compromettano ancora di più il quadro clinico per cui di fatto rendono sempre più difficile l’individuazione della diagnosi vera e nello stesso tempo minano nel profondo l’equilibrio di tutta la famiglia. Pur essendo credente, ma senza alcun giudizio verso nessuno, perché prima di giudicare occorre vivere le situazioni, vorrei anche trasmettere il messaggio che non serve ricercare soluzioni miracolistiche, ma che in fondo il vero miracolo è continuare a credere e a lottare per la propria dignità e che si può ritornare a vivere senza lasciarsi morire dentro.
A tutti coloro che vivono momenti bui per questi o per altri motivi, vorrei esprimere la mia vicinanza.
INTRODUZIONE
E’ buffo, nonostante in famiglia siamo in due narcolettici, non so indentificare il periodo in cui abbiamo incontrato la narcolessia. Certamente sarò stata io a trasmetterla e comunque convivevo con essa da diversi anni. Senza conoscere le cause, ma più o meno consapevolmente ho agito sulle strategie per poter controllarne gli effetti e riuscire quindi a fare tutto lo stesso.
Questo è un fatto positivo, perché significa che con la narcolessia si può convivere. Ma andiamo per gradi.
A 35 anni mi sentivo pienamente realizzata: 2 figli finalmente un po’ di autonomia, un bravo marito, una bella casa con il mutuo, una discreta carriera raggiunta con fatica e determinazione; insomma mi ritenevo fortunata, avevo tutto ciò che desideravo. La voglia di lavorare non mi mancava ed ero presa dal vortice della vita familiare-lavorativa, pur conservando uno sguardo alla fede e ad un minimo di volontariato.
Nel giro di qualche mese però i problemi “spuntavano come i funghi” e non facevamo in tempo a risolverne nessuno che se ne presentavano altri. Tutti gli aspetti più importanti della vita sembravano essere stati colpiti duramente.
LA COPPIA
Onestamente mi sembrava faticoso, ma tutto sommato era facile essere felice ed adempiere con amore al mio ruolo di moglie, di mamma. Mi sembrava che la nostra coppia fosse sufficientemente forte per superare qualsiasi difficoltà. Illusa! Sono bastati alcuni giri al pronto soccorso, diagnosi gratuite, la gestione degli effetti collaterali di alcuni farmaci, la mancanza di diagnosi vere e certe, la scelta di abbandonare temporaneamente la carriera lavorativa per risolvere una situazione che ad un certo punto sembrava irrisolvibile e crudele, ore ed ore su internet alla ricerca di una malattia con un nome definito, pellegrinaggi fra diversi specialisti, per andare in crisi su tutti i fronti. E’ stata un’esperienza devastante che non auguro a nessuno.
Mi sono ritrovata a 40 anni, forse prima, a riflettere che forse avevo sbagliato tutto nella vita, che forse avevano ragione i medici a dirci che eravamo noi genitori a non volere accettare la malattia del figlio, che eravamo esauriti. Vero, ma quale malattia, dovevo almeno sapere quale!
Mi sentivo come un puzzle in cui il vento aveva buttato all’aria tutte le tesserine. Ma possedevo ancora le tessere giuste? Mi sembrava di sì, i miei valori erano gli stessi. Ma cos’era cambiato? Dovevo sopravvivere degnamente, perché la mia famiglia aveva bisogno di una mamma lucida, non esaurita e soprattutto in grado di “tener testa” ad alcuni medici, poi lasciati; ma non riuscivo a fare ciò senza riprendere le domande fondamentali della vita (che senso hanno la fede, la sofferenza, la malattia dei bambini) per cui con pazienza (non mia, ma di chi mi ha ascoltato) ho cercato di ricomporre il mio puzzle. Forse la crisi è stata maggiore, perché pensavo di avere fede e ho scoperto di averne poca, credevo moltissimo nella condivisone in famiglia, nella comunità e ho constatato che non sempre ciò sia realizzabile ed auspicabile. Mi ero illusa che la nostra famiglia avrebbe retto ad ogni urto ed invece mi sono resa conto delle nostre fragilità come singoli e come coppia. La scelta di non condivisione delle nostre emozioni, paure e dubbi, compiuta a volte per non schiacciare l’altro con le nostre ansie, si è dimostrata essere nel tempo molto pericolosa.
Anni di gruppi, di esperienze di volontariato, possibile non averne fatto sufficientemente tesoro per essere in grado di affrontare una situazione complessa, ma non ancora definitivamente compromessa?
Insomma, a voler essere ottimisti c’era da domandarsi:
“Io, chissà se me la cavo…”.
In un batter d’occhio siamo passati da famiglia “Mulino Bianco” (il sogno sbagliato, perché irreale, di ogni mamma) a famiglia sull’orlo dell’esaurimento nervoso e della separazione. Di fatto eravamo tutti sempre più nervosi. Il nostro primogenito con l’ingresso alle scuole medie si era come trasformato! Sembrava svogliato, addormentato, distratto, cadeva spesso facendosi male e si innescava un circolo vizioso in quanto ci trovavamo sempre a dover recuperare qualche cosa, per cui il tempo dedicato allo svago si era lentamente azzerato. Il suo nervosismo era cresciuto a dismisura, per cui spesso ci siamo ritrovati a perdere la pazienza. Non ci riconoscevamo più.
Cosa stavamo diventando? Mi vergognavo, piangevo, mi disperavo, sembrava che il mondo ad un tratto mi crollasse addosso.
Possibile che non eravamo più capaci ad essere buoni genitori, a volerci bene neanche fra di noi? Davvero la delusione provata è stata grande. Cos’era sucesso?
Ma erano problemi di salute o anche di coppia? Al giorno d’oggi se ne sentono di tutti i colori, eppure ci volevamo bene. Boh? Iniziavamo quasi a credere a tutte quelle diagnosi gratuite che ricevevamo. Vivevamo scene da film, ma erano vere, le vivevo male e mi dicevo: “E no, non possiamo finire così”.
Fin dall’inizio tutti ci hanno sempre detto di sostenerci a vicenda, giustissimo in teoria, ma avevamo percezioni e approcci molto diversi alla situazione.
Certamente il primo ricovero è stato occasione per prendere atto insieme che c’erano dei problemi. Finalmente si era trovato un nome, un nome di cui conoscevo poco, ma comunque una giustificazione ad una situazione di grave malessere: l’epilessia, una malattia neurologica. Mi ricordo di aver detto con rabbia a mio marito: “Sei contento adesso una malattia c’è, puoi incominiciare ad usare un po’ di quella pazienza che usi con gli altri malati”.
Ci siamo allontanati come coppia, parlavamo sempre meno, la nostra comunicazione si riduceva ad un aggiornamento di tipo medico. In fondo non mi sentivo spalleggiata, sentivo il carico psicologico del figlio, mi stressavo, ma se mi scaricavo con mio marito poi era peggio. Dopo qualche giorno arrivavano delle sceneggiate fra me e lui, ed io non le sopportavo. Secondo me non accettava l’idea di un figlio che potesse essere malato e che in fondo aveva lo stesso suo carattere. Pur volendogli bene, per me lo sgridava troppo. Non mi piaceva neanche il tono che usava con lui. Io mi arrabbiavo, lui mi accusava di prendere sempre le parti dei figli anche quando avevano torto. Ci stavamo allontanando. Si era innescato un meccanismo che rischiavamo di non essere più in grado di controllare.
Per salvare la famiglia ho deciso di chiedere il part time. Tale scelta ha portato maggior serenità in casa, perché sapendo di contare su di me, tutti erano più tranquilli; di fatto questa decisione ha influenzato moltissimo la mia vita. In pratica il mio orario di lavoro era “tarato” all’orario dei figli per cui mi sono ritrovata ad aver azzerato i miei spazi, la mia autonomia. Ogni volta che avevo bisogno di tempo per qualsiasi commissione dovevo chiedere in anticipo a qualcuno, rendere conto e questo in fondo mi dava profondamente fastidio anche se all’inizio non ho dato peso a questo aspetto, perché l’importante per me era salvare la famiglia.
Nonostante le indicazioni ricevute io e mio marito non ci siamo stati molto d’aiuto, soprattutto durante i primi anni di questo percorso, perchè la tristezza a volte era così forte che il condividerla con il partner significava renderlo ancora più triste, caricarlo di un ulteriore peso che non sapevamo essere in grado di sopportare.
Per me sforgarmi però, era fondamentale per sopravvivere, così ho utilizzato un po’ le mail e quando ero proprio giù cercavo di parlare con i nostri don.
Alcuni nostri amici hanno pensato che non andassimo più d’accordo. L’abbiamo dubitato anche noi, poi riflettendo insieme ci siamo accorti che ognuno viveva il dolore alla sua maniera: d’istinto lui si chiudeva, io invece avevo bisogno di comunicare. Nostro malgrado stavamo creando un circolo vizioso, da cui sarebbe stato difficile uscire. Ancora oggi, purtroppo, reagiamo così.
Farsi aiutare, era una bella idea, ma occorrevano tempo ed energia. E noi non ne avevamo. Per fortuna negli anni precedenti avevamo fatto un bel cammino di coppia attraverso vari gruppi, per cui inconsapevolmente abbiamo attinto dai tesori accumulati nel passato.
All’inizio ci pareva di poter farcela da soli, poi siamo passati alla fase della non voglia: stavamo perdendo la voglia di fare qualsiasi cosa. Lui usava quest’ espressione: “Sopravvivo” e si trascinava le ciabatte, domandava: “Quali sono i programmi, cosa devo fare?”, io m’incavolavo perchè erano atteggiamenti passivi, di chi non reagisce.
Lo psicoterapeuta che seguiva il nostro ragazzo si era accorto della situazione, ci ha chiamato invitandoci a non perder la speranza, altrimenti tutto sarebbe diventato più difficile. Abbiamo quindi deciso di iniziare a prenderci del tempo per noi. Sapevamo che una gita in montagna ogni tanto ci avrebbe ricaricato, ma poi di fatto non siamo riusciti a mantenere nel tempo le nostre buone intenzioni. Come potevo andare a passeggio con mio marito e lasciare un ragazzino che sta male?
Con questi alti e bassi abbiamo proseguito il nostro cammino cercando di mantenere per fedeltà almeno gli impegni che ci eravamo presi in precedenza. Senza raggiungere risultati eclatanti, però siamo sopravvissuti alle nostre frequenti situazioni stressanti (rapporto con medici, tensioni per eventi improvvisi). Situazioni in cui ognuno ha reagito alla sua maniera: lui si è chiuso nelle foto, io mi sono aggrappata al computer, al telefono, alle persone che mi davano un po’ di carica spirituale. Nonostante tutto eravamo comunque motivati a non mollare. Ogni tanto, solo una o due volte all’anno, abbiamo programmato due giorni solo per noi: un viaggio, un ritiro. Puntualmente quando era ora di partire si scopriva che era il momento sbagliato, capitava sempre qualche imprevisto.
Si è trattato comunque di episodi che ci hanno fatto bene, i nostri figli le prime volte si sentivano un po’ abbandonati, ma serviva anche a loro fare esperienza di famiglia in altre famiglie (dai nonni non volevano andare, era più divertente andare da famiglie con figli coetanei). Erano “boccate d’ossigeno”, solo che gli effetti benefici duravano troppo poco.
Il tempo ci ha insegnato a riconoscere i circoli viziosi che più volte si sono creati, ma purtroppo non abbiamo ancora imparato a superarli, li riconosciamo, ma, ahimè, siamo recidivi.
Lentamente il nostro logorio è aumentato.
Alla fine i pensieri brutti sembravano prender forma, spaventavano, sembravano l’unica soluzione liberatoria…lucida follia. In un momento di sconforto una sera d’agosto, mentre mio marito faceva la notte ho chiamato il don che ci aveva sposati. Data l’ora tarda ha intuito, abbiamo parlato un bel po’, mi ha tranquilizzata, parlando mi sono scaricata un po’ e per fortuna tutto si tramutato in un pianto liberatorio. Non m’importava di me. Mi domandavo quale potesse essere la soluzione migliore per la mia famiglia. Anche mio marito ormai sperimentava la depressione. Pensavo: ”Siamo a posto! Pronti verso il disastro totale, certo che se avessi saputo prima cosa ci avrebbe riservato il futuro, altro che sposarmi, aver figli”. Stavamo costruendo un bel pasticcio.
Abbiamo deciso di affidarci all’omeopatia, non avevamo bisogno di essere depressi o angosciati, dovevamo essere forti e lucidi se volevamo avere qualche speranza di minima riuscita.
Sembrava funzionare, ma fisicamente peggioravamo ancora, ne avevamo sempreuna, soprattutto io, anche se “tiravamo avanti” per serietà e determinazione, nella speranza che almeno la fatica un giorno sarebbe stata premiata. Per intanto abbiamo pagato con la nostra salute il cercare di “tener duro senza mollare”. Abbiamo vissuto comunque con amore e rispetto i nostri limiti, sempre più insicuri di essere ancora in grado di continuare a sopportare. Sentivamo la necessità di accudire oltre che ai nostri figli al nostro amore, solo che con il passare del tempo il nostro livello di sopportazione si riduceva sempre più. Verso l’esterno mantenevamo un minimo di self control, ma poi la tensione, la preoccupazione si riversava nel clima familiare, così nel tempo siamo diventati più “brontoloni” ed esauriti come dicono, talvota, i nostri figli.
Spesso ci siamo detti che se mai fossimo riusciti a risolvere qualcosa della salute di nostro figlio, poi avremmo iniziato con la nostra. Alla fine star dietro ai dottori si diventa malati davvero! Ma si trattava della salute, del futuro di nostro figlio, un ragazzino verso il quale avevamo anche il dovere morale di fare tutto il possibile. Sarei andata sulla luna pur di trovare una soluzione!
Ogni tanto mi veniva in mente, cosa faremo dopo…come se questa “cosa” dovesse risolversi prima o poi. Una cosa sola mi sono ripromessa: tutta la nostra sofferenza non poteva essere fine a se stessa. Iniziavo a sentire in me il desiderio di condividere la nostra esperienza, pur spiacevole, per evitare ad altri ciò che abbiamo dovuto subire noi.
E’ buffo, scrivo la nostra storia quasi con un certo distacco, come se fosse una storia di amici i cui problemi sembrano assumere una dimensione più ridotta nel momento in cui vengono messi nero su bianco.
Non è che le preoccupazioni, la sofferenza siano superate, sono nascoste “sotto un tappeto in cantina” e basta poco per farle riemergere come fantasmi. Il rammarico è che in questi anni di battaglie con la categoria dei dottori in senso ampio del termine, noi abbiamo perso salute, stabilità ed energia e questo purtroppo influisce moltissimo anche sulla nostra vita di coppia, per cui strano a dirsi, ma rileggere ora queste righe è nuovamente terapeutico anche per noi, quasi un monito: “se abbiamo superato questo possiamo superare anche il resto che verrà”.
LE FAMIGLIE D’ORIGINE
Pensavamo di avere un buon rapporto con le nostre famiglie, per cui in fondo nutrivamo delle aspettative in loro. L’autonomia che avevamo raggiunto come coppia e come famiglia in un certo senso poteva giustificare la nostra indipendenza, ma nel tempo ha ridotto la confidenza reciproca. Io pativo molto il fatto che non si accorgessero di nulla e non ci stessero vicini. Solo dopo diciotto mesi e un nuovo ricovero incominciarono a porsi delle domande, si erano accorti che qualcosa non andava… solo che invece di farci sentire la loro vicinanza stressavano con diecimila domande e possibili soluzioni. Anche noi avevamo un sacco di domande, perfino troppe, ma zero soluzioni efficaci. In realtà stavamo procedendo per gradi, volevamo mantenere un minimo di logica nell’affrontare le varie ipotesi e rimanere nella medicina ufficiale. Tutti i tentativi si stavano dimostrando fallimentari per cui eravamo nell’imbarazzo del dire o non dire, perché in ogni caso avremmo fatto male. Il nostro non dire per non creare preoccupazioni inutili o ulteriori tensioni era stato interpretato come volerli escludere, il dire poi significava dover gestire anche la loro ansia e noi faticavamo già a gestire la nostra.
Prendere atto che ci possano essere dei problemi seri di salute è doloroso per tutti, genitori e nonni. La malattia di un adulto dispiace quella di un bambino manda in crisi, sovverte l’ordine naturale della vita. Ci si sente impotenti, sembra impossibile, ingiusto. E così dal silenzio assoluto ad una serie di frasi generiche che sicuramente avevano la buona intenzione di stemperare una situazione, di creare legame, di dare dei consigli, ma che purtroppo infastidendoci hanno prodotto l’effetto contrario. Frasi del tipo: ”Tutti i ragazzi fanno così”, “Povero bambino”, “Hai ancora avuto male?”, “E dovete aver pazienza, lui prende le medicine”, “Sarà l’adolescenza” , “C’è quel tale che guarisce”, “Non riuscite neanche a far star bene i vostri figli..”
E poi più niente, ognuno alle sue abitudini, salvo dire ” Se avete bisogno?”. Quante volte non abbiamo avuto bisogno! Il bisogno è una necessità, per cui in linea di massima eravamo già abbastanza organizzati, ci siamo sempre arrangiati con le ferie, anche perché comunque alle visite devono esserci i genitori. Ma possibile che la domanda fosse solo: ”Avete bisogno?”. Non si poteva venire a trovare i nipoti per la voglia di stare insieme e non per bisogno dei genitori senza proporre di cercare soluzioni miracolistiche?”.
Siccome con il tempo siamo diventati bravissimi a svicolare da questi giochi familiari, allora sempre a fin di bene, sono state coinvolte altre figure parentali che avrebbero dovuto convincerci. In realtà si è trattato di un altro danno che ha prodotto litigi fra parenti. Ma se per tanto tempo non si erano accorti di nulla, perché adesso tutti sentivano il dovere di intervenire? E continuare a farsi i fatti propri? Non potevamo permetterci di dover giustificare ogni nostro comportamento con tutti. Capitavano molte cose in tempo ravvicinato, non potevamo avvisare tutti, mettere i manifesti delle nostre disgrazie, chiedere aiuto secondo un ordine prestabilito dalle famiglie. Dovevamo “pararci”, fare attenzione a non creare troppe gelosie anche fra le rispettive famiglie.
Sapevamo che ci sarebbe stato un ricovero.
Per non creare agitazione inutile la comunicazione è stata data a ciascuna famiglia in un’occasione tranquilla. Una parte non ha chiesto nulla, non ha telefonato per fare gli auguri prima della partenza, lasciando pensare di “essersi dimenticati”. In realtà le informazioni sono state chieste direttamente al nipote in questione che certamente era il più informato sui fatti! Alla fine abbiamo deciso di continuare la “farsa” del far finta di niente, quasi fosse tabù parlarne, una cosa di cui vergognarsi. Ma, perché?
Questo ha contribuito ad aumentare la solitudine e la “distanza” fra le persone. Più passa il tempo e queste cose che tanto mi hanno fatto arrabbiare giustamente perdono di importanza, anche se mi domandavo come era possibile non accorgersi o continuare a far finta di nulla.
Ad un certo punto, siccome noi genitori continuavamo a non risolvere nulla, a qualcuno è venuto in mente di proporre all’interessato ed a nostra insaputa (visto che già in passato avevamo espresso parere negativo) incontri con una pranoterapeuta-guaritrice. Si è creata una situazione imbarazzante per il nostro figliolo che non voleva creare dispiacere a nessuno. A quel punto a fronte del nostro rifiuto genitoriale, a scene pietose accadute, su consiglio ricevuto, abbiamo deciso di “chiudere i ponti”. Per me è stato un dispiacere enorme, carico di sensi di colpa, ma determinato a cercare il bene presente e futuro di mio figlio. Era chiaro che ogni visita ricevuta di quel genere creava agitazione e scompenso. Ipotizzare l’introduzione di altre figure, di dubbia reputazione, avrebbe creato ulteriore disorientamento. In fondo, intorno avevamo già troppi medici, supporre di eliminare i farmaci antiepilettici avrebbe fatto danni enormi a lui che già non li voleva più prendere, perché li considerava la causa della sua sonnolenza.
Non vedo cattiveria nei comportamenti che ho raccontato, ma devo ammettere che l’abbiamo vissuta come estrema mancanza di fiducia e di rispetto nei nostri confronti.
A volte abbiamo avuto l’impressione che qualche parente si sia mosso per la curiosità di sapere che cosa potevamo aver sbagliato o se i propri figli/nipoti avrebbero rischiato qualcosa potendosi trattare di qualche malattia genetica.
Il nostro tentativo di indagare sul passato delle nostre famiglie per capire se ci potesse essere familiarità ha creato altri malumori. Ad ogni visita ci veniva rivolta la stessa domanda e noi abbiamo trovato serie difficoltà nel proporre domande di questo genere ai nostri familiari, perché questa domanda ha sempre scatenato meccanismi di autodifesa ed accusa nei confronti dell’altra parte della famiglia, quasi a cercare un “colpevole”. Non si trattava di cercare un colpevole, ma di cercare informazioni che potessero essere utili ai medici per la formulazione di una diagnosi. Dopo mesi di arrabbiature, abbiamo rinunciato noi.
Pensavamo di avere ed essere famiglie normali relativamente moderne ed aperte, invece nei fatti poi abbiamo dimostrato diversi momenti di sbandamento, intoccabili argomenti tabù. Forse la normalità è anche questo: smussare gli angoli e continuare ad andare avanti per il bene della famiglia.
Solo dopo parecchio tempo dall’ultima diagnosi e dopo aver visto i primi risultati del farmaco introdotto, la situazione si è un po’ rasserenata. Ognuno è tornato a vivere ed interpretare serenamente a suo modo il proprio ruolo: genitori da una parte e nonni dall’altra.
GLI AMICI
“Chi trova un amico trova un tesoro”. Verissimo.
Il brutto è che uno pensa di avere degli amici che poi nel momento del bisogno non solo non possono, ma neanche si accorgono…. Anni di esperienze comuni, condivisioni anche serie, non sono garanzia di nulla, anzi poi la delusione rischia di essere maggiore.
Ha senso esprimere la delusione agli amici per un’amicizia che si credeva profonda e che si scopre poi non essere tale? A quel punto magari l’atteggiamento cambierebbe, ma il rapporto non sarebbe più sincero e spontaneo. L’amicizia per me è gratis, non è opportunista, ma per fortuna esistono anche la “manutenzione” dei legami e la possibilità di ricominciare sempre.
Sicuramente qualche amico-conoscente si è accorto che qualcosa non andava e per “pudore” non si è espresso; il silenzio e la fretta hanno fatto poi il resto. La conclusione è che noi abbiamo percepito solo indifferenza, magari c’era anche preoccupazione sincera, ma non essendoci stato nessuno scambio, ognuno ha vissuto individualmente le proprie emozioni, i propri problemi. Spesso ci mascheriamo dietro la mancanza di tempo, la privacy, il non accorgersi del malessere altrui o il non osare e alla fine viviamo una vita individualista e in solitudine. Eppure basterebbe così poco per far sentire la nostra vicinanza! Alla fine ciò che uccide in una situazione del genere è la solitudine che si viene a creare.
All’inizio desideravo poter comunicare, poi con il passare del tempo mi sono resa conto che in realtà ciò non era positivo per mio figlio, perché ho riscontrato, da parte di alcuni, cambi di atteggiamento nei suoi confronti.
Allora, visto che la maggioranza sembrava non accorgersi di nulla abbiamo deciso di continuare nel gioco: “Un po’ di stanchezza… passerà..” …”Tutto bene, grazie e voi… ?”, basta girare la domanda e come d’incanto la gente incomincia a parlare di sé. Infondo siamo tutti un po’ egocentrici e amiamo molto parlare di noi stessi e dei nostri problemi.
Per fortuna una famiglia amica c’era. A volte ci dispiaceva, sembrava persino di approfittare. Potevamo chiedere senza dover dare spiegazioni.
Una famiglia che più volte intuendo il pericolo di chiusura in noi stessi, ha inventato una scusa per una cena. Senza accorgerci abbiamo passato una serata diversa, lontana dai nostri problemi. E’ stato una benedizione per noi e per i nostri figli essere un po’ trascinati. E’ servito a far passare il tempo, un po’ più in fretta, perché quando le cose non vanno bene, sembra non solo andare a rilento, ma addirittura fermarsi.
La situazione si protraeva, la storia era sempre la stessa, noi però continuavamo a star male, i problemi crescevano e dolore si rinnovava, perché purtroppo al dolore non ci si abitua, anzi più passa il tempo e meno si sopporta, che sia inversamente proporzionale alla durata? O che abbiano ragione i medici quando dicono con sguardo di pena: “I genitori non sanno rassegnarsi”? Ma un genitore può rassegnarsi, forse, quando sa a che cosa rassegnarsi, ma noi a cosa dovevamo rassegnarci?
Allora non restava che isolarsi, gli amici erano stufi di chiamare, sembrava volessimo negarci, ma il fare tardi avrebbe pregiudicato la giornata successiva. A che pro uscire se ciò avrebbe causato ulteriore sonnolenza, possibili cadute? Sì eravamo consapevoli che poteva farci bene, ma prima dovevamo pensare al suo bene e non al nostro. Abbiamo mantenuto gli impegni “obbligatori”, quelli che si fanno per dovere nei confronti dell’altro figlio che iniziava a protestare per le rinunce che per colpa del fratello doveva subire.
A volte persino la partecipazione alla messa diventava pesante, perché in quella occasione sapevamo di incontrare persone amiche e a volte era pesante anche solo incrociare i loro sguardi. Sembra un controsenso: da una parte lamentavo la solitudine e dall’altra a volte per noi era emotivamente difficile incontrare gli amici di sempre. Certo che in questi casi dev’essere difficile offrire amicizia!
Il tempo ha ridato la giusta prospettiva ai vari rapporti. Qualcuno si è sciolto come la neve al gelo, qualcuno è stato ripreso, qualcuno si è fortificato, altri sono nati, esattamente come capita normalmente nella vita.
COLLOQUI CON IL PADRETERNO…e i nostri don
Per me questo è il capitolo più tormentato, riguarda il mio travaglio interiore, la fede che pensavo di avere ed invece ho scoperto essere così debole. Spero che quanto decritto possa servire a qualcuno almeno a sentirsi normale, perché ad un certo punto mi sentivo perfino in colpa per non apprezzare tutte le cose belle che comunque avevo.
Perché parlare di fede in un libro sulla malattia? Perché in poco tempo sono andata in crisi anche su questo argomento. In cuor mio pensavo che la fede aiutasse nelle difficoltà, invece spesso mi sono trovata ad essere arrabbiata con il “Padreterno” perché avrei voluto qualcosa di diverso per i miei figli.
Se reagivo così, cosa avrei mai fatto se mi avessero detto che non avremmo avuto speranza di vita? La sofferenza non può essere senza senso, se il Signore è davvero buono non può permettere tutta la sofferenza che c’è nel mondo, soprattutto quella dei bambini. Buffo, sempre molto sensibile ai problemi sociali, mi accorgevo solo ora della sofferenza presente nel mondo? Evidentemente il mio essere cattolica aveva dei problemi. Ma da dove incominciare? Avevo davvero voglia di ricominciare? In alcuni periodi non pregavo proprio, perché altrimenti scoppiavo in lacrime o perché tenendomi il più occupata possibile, risultavo così stanca da addormentarmi appena mi rilassavo. In verità in cuore mio, l’unica preghiera sarebbe stata la richiesta di guarigione, ma onestamente non potevo chiederglielo, in quanto ritenevo che Dio non avesse bisogno di sentire l’elenco dei miei bisogni e neanche che potesse essere il burattinaio che al sorgere del sole distribuisce disgrazie o guarigioni.
Quanto avrei voluto una fede grande! Ne avrei fatto volentieri una bella scorta, peccato che la fede non si possa comperare a chili!
Avevo notato che se ero carica dal punto di vista spirituale riuscivo bene o male a trasmettere calma e serenità in famiglia, ma questo non era certamente il motivo della mia ricerca.
Potevo essermi sbagliata per così tanto tempo circa la fede? Dovevo quindi, ritrovare, oltre a tutto il resto, anche le ragioni della mia fede cristiana.
Si è trattato di un percorso soprattutto personale, perché mio marito sembrava essere diventato “allergico” agli incontri, alla vita di fede personale e di coppia. Qualche volta ho provato a spronarlo, a chiedergli di pregare insieme, ma nella maggioranza dei casi mi accorgevo di aggiungere solo ulteriore tensione, per cui come suggeritomi, non ho insistito particolarmente nel coinvolgerlo.
In un certo senso mi sentivo quasi tradita rispetto ai valori che avevamo scelto come base del nostro progetto iniziale di coppia. Pur riuscendo a capire il mio punto di vista, mi faceva notare che se nella coppia uno si ammala gravemente l’altro non lo abbandona e continua a curarlo per amore, per fedeltà. Appunto, forse valeva lo stesso discorso anche per il cammino spirituale. Ovviamente, dovendo assicurare presenza continua in casa abbiamo ridotto il nostro impegno di coppia, ma abbiamo continuato a seguire qualche gruppo di preparazione ai battesimi. Questo servizio in quel periodo ci è costato caro, non tanto per il tempo dedicato, ma perché in fondo noi eravamo parzialmente in crisi su punto che presentavamo durante la riflessione: “I genitori contribuiscono all’opera creatrice di Dio, Egli ha un bel progetto sui nostri figli e dove non arriviamo noi arriverà Lui”. Bellissimo, solo che improvvisamente queste parole, sempre dette con convinzione, non sembravano essere più per noi. Non riuscivo proprio a pensare a un bel progetto, nel caso migliore avremmo avuto anni difficili. Non dubitavo sul fatto che Lui non ci avrebbe abbandonato, dubitavo e talvolta dubito tuttora sulla nostra stabilità. Però se a quella frase credevamo ancora, allora avremmo dovuto essere più sereni.
Mi accorgevo che era necessario comunque investire per il futuro, per cui non potevo lasciarmi troppo andare, dovevo cercare di tenere il timone della mia barca per non lasciarla andare alla deriva.
Ho usato molto le mail: metodo semplice per comunicare a tutte le ore. Scrivevo, così nessuno dei miei familiari poteva sentire al telefono ciò che pensavo, provavo ed appena potevo andavo a vedere le risposte ricevute. Quanti giri davanti al computer in attesa di qualche parola di conforto ed incoraggiamento!
Studiavo, scrivevo seguendo i miei pensieri, gli stati d’animo. Non avevo né il tempo, né l’energia per seguire un processo logico, pertanto transitavo dalla ricerca in medicina allo studio del vangelo finalizzato alla ricerca del senso della sofferenza. Traevo gli spunti dalla vita pratica, da frasi banali
che vengono dette così tanto per dire, che comunque sono state lo spunto per interrogarmi e per ricostruire il puzzle del mio essere cristiano “adulto”. Ve le ripropongo come piccolo spunto di riflessione.
“Perché a voi doveva succedere? Cosa avete fatto di male?”
Molte famiglie fanno esperienze di figli, malati, drogati…non penso ci sia un disegno particolare, nelle varie vicissitudini che possano capitare nella vita.
Allora perché “facevo tante storie”? Perché a noi non sarebbe dovuto succedere? Non eravamo né migliori, né peggiori di altri.
“Ognuno raccoglie ciò che semina”
Non ci sembrava di aver seminato così male, eppure dal punto di vista genitoriale sembravamo essere un vero disastro: per i medici non eravamo in grado di ottenere comportamenti adeguati all’età, per alcuni parenti non eravamo in grado di assicurare la salute e la serenità ai nostri figli.
“Non tutte le ciambelle vengono con il buco”
Ogni tanto questa frase sembrava emergere da qualche sguardo compassionevole, anche se non è mai stata pronunciata in modo esplicito, come per dire: “Cose che capitano…” Poi finalmente dopo un incontro casuale. Un giorno un mio cliente medico, si attardò in ufficio. Sembrava sapere cosa avevo bisogno di sentirmi dire: “Ascolti me, i nostri figli vanno bene, così come sono”. Deve arrivare ad accettare la realtà, prima lo fa e prima sarà meglio anche per suo figlio”. Ho pianto di quel tanto, appena se ne è andato; era la prima volta che piangevo in ufficio, ma per fortuna lui aveva aspettato che in pausa pranzo fossero già andati via i clienti ed anche quasi tutti i colleghi. E’ stato un incontro che non dimenticherò, non tanto per le parole, anche, ma soprattutto per la delicatezza che mi ha permesso di accoglierle di fare un altro piccolo passettino in avanti:
– “Mio figlio non è una ciambella e Dio non produce scarti!”
– “Al di là di cosa la medicina può esprimere ed offrire, il nostro compito genitoriale era il medesimo per entrambi i figli: favorire le potenzialità di ognuno, aiutarli a crescere e rendersi autonomi.
“I figli assomigliano ai genitori”
Altra bella frase che ci infastidiva. All’inizio non eravamo, né esauriti, né problematici, in futuro non posso garantire. Eravamo una famiglia tutto sommato normale e abbastanza solida, altrimenti ci saremmo già separati. E allora, perché? Qual’ era il senso di queste malattie? Forse era meglio smettere di cercare chissà quale senso, disegno e provare a vedere la situazione da altri punti di vista.
“Il signore manda le croci a chi vuol bene”
Questo per me è il top delle assurdità che dicono molti di coloro che frequentano la chiesa, quasi a sentirsi degli eletti nel campo della sofferenza.
Ma come si fa a pensare che un Dio buono che ci vuol bene (quindi vuol bene a me, a mio figlio, alla figlia del mio collega che invece è morta a 13 anni per un tumore, all’africano che decide di cercare fortuna in Europa, perché nel suo paese non ha speranza per il proprio futuro, alla ragazzina violentata ed uccisa), possa stare lassù a distribuire disgrazie a proprio piacimento?
“E’ disegno di Dio”
…il famoso destino di cui si sente parlare spesso in occasione dei funerali.
Ma che destino e destino! Dio lascia l’uomo libero di costruirsi il proprio futuro e non interviene. Vi confesso che se per un attimo fossi Dio qualche “interventino” lo farei, ma per fortuna non è un problema che mi riguarda.
“Le sofferenze servono per renderci migliori”
Purtroppo il dolore fa parte dell’esperienza dell’uomo, anche senza Dio; spesso se siamo sinceri ci accorgiamo che molte sofferenze sono causate dagli uomini ed allora non è giusto prendersela con Dio. Nella mia esperienza raramente ho incontrato persone che sono migliorate dopo un’esperienza forte di dolore, nella maggioranza dei casi si sono inacidite, chiuse in se stesse o addirittura ammalate. Spero di riuscire a non imitarle e di essere almeno più attenta alle persone che incontro.
“Chiedete e vi sarà dato”
La frase che in assoluto mi ha mandato più in crisi, questo è vangelo, non è la frase che si sente dire al mercato.
Mi sono messa allora a studiare i contesti e, purtroppo, continuo a capirne poco, molto poco. Forse chiediamo cose che non sono per il nostro bene? Ma non posso pensare che vita e salute siano cose che non siano il bene di una persona, di una famiglia. Forse siamo più noi a dover guarire che i malati stessi. Comunque per me, come mamma, il dolore dei bambini è insopportabile. Dio ci spiegherà, un giorno.
“Offri al Signore la tua sofferenza”, “Vivete ogni attimo come se fosse l’ultimo“
Nel mio modo di pensare si offrono le cose belle, non quelle brutte (a meno che si tratti di un’operazione di riciclo regali sgraditi).
Ad un certo punto del nostro percorso ho detto al Signore di prendere la mia vita in cambio della guarigione o almeno di dare a me anche a me la sua malattia per riuscire almeno ad individuarla. Nessun atto eroico, solo il non sopportare la sofferenza presente e futura di un figlio.
Era chiaro che era difficile non soccombere, ma per fortuna ogni tanto mi veniva in mente un esempio ricevuto quand’ero ragazzina:
“La vita è un susseguirsi di candeline”, accendile, ma se rimani indietro non tornare indietro per cercare di recuperare quelle tralasciate, ricomincia da capo e vai avanti, altrimenti non riesci ad accendere quelle che passano nel momento presente”. Ogni tanto mi veniva in mente l’immagine delle candeline e senza ragionare troppo decidevo di ripartire.
In teoria non era una lezione complicata: vivere il presente senza affannarsi troppo per il futuro. Ma era teoria pura, non riuscivo proprio, mi ribolliva il sangue a vedere mio figlio star male ed essere così impotente!
Ad un certo punto però questi pensieri non erano più costruttivi ed anche l’energia per protestare e per ribellarmi si stava esaurendo, così spinta da una frase del nostro amico Paolo: “Smetti di piallarti la croce” è giunto il ragionamento sulla fiducia: forse la fede era ed è un “salto”. Dovevo decidere di smettere, di andare oltre, senza preoccuparmi delle nostre fragilità. Per fortuna, Lui ha braccia “molto larghe” non si stupisce delle nostre miserie.
Alla fine di questo tormentato periodo ho pregato così:
“Signore, non penso di poter reggere a lungo. Penso di aver fatto tutto ciò che era umanamente possibile, fai Tu. Siamo sempre più deboli, iniziamo a “perder colpi”: dormiamo malissimo, mio marito si è schiantato in macchina…è un miracolo che sia vivo. Grazie, ma non mi basta, sarò egoista, ma se andiamo avanti così, quando arriveremo ad una diagnosi, sarà troppo tardi. Cerca Tu al mio posto, prendi Tu il timone della barca della mia famiglia, perché io non so più distinguere cosa è bene fare o non fare, fai qualcosa Ti prego! Signore, facci capire cosa dobbiamo fare”.
Poi un pensiero a Giovanni Paolo II: “Sei stato il nostro papa, sei il papa della speranza nei giovani. Ti affido i miei figli, il loro futuro, se i problemi di salute dovessero persistere diventa difficile vivere la speranza per il futuro. Ti prego aiutaci”.
Il mio atteggiamento da allora si è lentamente rasserenato e finalmente con i soliti alti e bassi abbiamo iniziato lentamente a migliorare un po’ su tutti i fronti.
Ne parlo come se fosse tutto superato, a volte però ci sono ancora forti momenti di smarrimento, basta un peggioramento di salute, subito la mente corre nel passato, si riempie di paura, si vive la precarietà e si ha la netta sensazione di essere ancora più poveri e fragili.
IL LAVORO
Finalmente stavo facendo il lavoro che mi piaceva. Avevo preso la direzione di una piccola agenzia della banca per cui lavoro. Ero contenta, lavoravo con coscienza, imparavo molto, ero abbastanza lontana da casa, ma sarebbe stata un’assegnazione molto temporanea, dunque ero anche molto stanca. E così è stato. A settembre 2005 ho cambiato agenzia e sono finalmente ritornata a lavorare a circa 20 minuti da casa. Mi trovavo davvero bene con i colleghi e pensavo di riuscire a gestire i primi problemi del mio primogenito che stavamo emergendo con il passaggio alle scuole medie. Lavorare per me è stato positivo, mi ha permesso di distrarmi quel tanto da non “dare i numeri”, di mantenermi comunque la mente attiva anche se la responsabilità, il ruolo che ricoprivo non mi permettevano di essere serena. A volte il pomeriggio telefonavo a casa, mi rendevo conto dalla voce al telefono che avrei dovuto rientrare.
Decidere di chiedere il part-time per me non è stato così facile e neanche così scontato. In fondo speravo che tutto potesse risolversi, ritornare normale come prima, ma intanto il tempo passava e la situazione si complicava. A volte mi sembrava di essere uno degli attori principali di un film a cui però non era stato consegnato il copione: recitavo senza conoscere la mia parte. Speravo di “risvegliarmi dal brutto sogno”, ma purtroppo continuava ad essere tutto terribilmente vero.
Era vero che mi stavo giocando la carriera. Ricominciare da capo, magari con un capo che non ti piace, ma non avevo chance, non potevo permettermi di lasciar qualcosa di intentato.
All’inizio riuscivo a mantenermi aggiornata su tutti i fronti (ero abituata a leggermi tutta l’informativa fuori orario di lavoro) poi visto che le cose peggioravano, mi sono riproposta di non farlo più. Non era giusto togliere altro tempo alla mia famiglia. D’altronde il mio part- time era già abbondante, perché qualche straordinario l’ho sempre fatto e visto che per i quadri è gratis, era saggio non farne troppo.
Il lasciarmi assorbire molto dal lavoro comunque per me è stato salutare.
Il mio percorso professionale se da un lato mi ha consumato molte energie, dall’altro mi ha dato degli ottimi strumenti che mi sono serviti per impostare un metodo nelle mie ricerche in campo medico, per mantenere quel minimo di autostima necessaria a sostenere il “dialogo” con i medici. A distanza di tempo devo ammettere che il lavoro per me è stata una benedizione, guai se fossi stata semplice casalinga (con rispetto per le casalinghe), avrei certamente pensato troppo e mi sarei consumata più del necessario.
LA SCUOLA
Gli insegnanti non si erano accorti delle nostre difficoltà, del grosso travaglio che stavamo vivendo per cui d’accordo con lo psicoterapeuta avevamo deciso di non dire nulla.
Dopo il primo ricovero per l’attacco epilettico, in coscienza ci è sembrato giusto avvisare, più che altro perchè se il fatto si fosse ripetuto si sarebbero spaventati più del necessario.
La vita procedeva, ma un problema ne attira un altro, così è arrivata la monucleosi, passata quella però è rimasta la difficoltà di stare sveglio e di conseguenza di fare i compiti. Poi la decisione di cambiare specialista. Da lì sono aumentate le speranze, le delusioni, i cambi dei farmaci ognuno con i suoi effetti collaterali non da poco: depressione, sonnolenza, scarsa concentrazione, difficoltà nello studio, cadute, traumi, esami del sangue fuori range. Alcuni giorni era come “addormentato”, allora studiavo con lui per cercare di tenerlo sveglio, facevo io gli schemi, ponevo domande, raccontavo, interropevo. In sostanza studiavo io per lui e con lui. In questo modo non è rimasto troppo indietro. L’idea di farlo seguire da una ragazza non ha prodotto i risultati sperati; sembrava semplicemente che non avesse voglia. Questo mi faceva letteralmente arrabbiare. Sembrava giocasse il ruolo dello “scemo”, ma scemo non era. Altri giorni era persino bravo, allora mi defilavo in modo da non “creare dipendenza psicologica nei miei confronti”, cosa di cui venivo “accusata” da mio marito e dai medici.
Ad un certo punto incominiciavano ad arrivare note tutti i giorni: “È un bambino disattento, distratto, anche se corretto continua a sbagliare”. Ho chiesto di non insistere con comunicazioni del genere, finchè non avessimo trovato la cura giusta (per i medici era giusta, era lui che siccome non accettava la malattia si faceva venire tutti gli effetti collaterali possibili, e dire che non leggeva i bugiardini!) almeno per l’epilessia. Passava da distinto a gravemente insufficiente in base al suo “grado di presenza”. Lui si scoraggiava e mi diceva: “Studio tanto e non porto a casa il giusto, i miei compagni sono sempre in giro e prendeno dei bei voti, io invece passo per scemo..”. L’ansia scolastica aumentava, prima di potersi effettivamente concentrare davanti ad un testo magari passava mezz’ ora, bastava un nulla per distrarlo e poi le crisi di emicrania erano aumentante di frequenza ed intensità. Saltava in media un giorno alla settimana di scuola, dormiva e non c’era verso di svegliarlo, quando si alzava non era riposato, anzi. Alla fine non c’era spazio per lo svago, ci imponevamo il nuoto ogni tanto e l’oratorio al sabato pomeriggio, vivevamo costantemente indietro, sempre a rincorrere qualcosa.
Poi un giorno una professoressa ha detto pubblicamente in classe che lui aveva solo delle storie. Che bella idea! Lei si è poi giustificata dicendomi che l’aveva fatto per “scrollare”, ma ha creato un bel problema, i suoi compagni hanno incominciato a chiedergli cos’aveva e lui non è stato in grado di rispondere. Ovviamente i suoi compagni non sapevano.
A volte abbiamo pensato seriamente di cambiare scuola, ma tanto avremmo incontrato gli stessi problemi anche altrove. Con il passare del tempo però per noi la considerazione della scuola è diminuita, così come le nostre aspettative; più precisamente abbiamo imparato a distinguere fra istituzione generalizzata e singoli professori che in anonimato ed autonomia continuano a svolgere giorno il loro compito educativo. Forse in cuor nostro ci aspettavamo qualche attenzione in più alla persona, ma forse è stato meglio che nessuno si sia accorto di nulla.
Il mio affiancamento scolastico durante le scuole medie ha intensificato molto il nostro legame, io cercavo di immedesimarmi, di capire il suo punto di vista, dall’altra però il nostro rapporto si è fatto molto più conflittuale, perchè spesso perdevo la pazienza. Mi era difficile capire il suo vero grado di difficoltà, perché la problematica si presentava ad “intermittenza, per usare una similitudine “come un flusso di corrente alternata”, gli chiedevo spesso se era connesso, magari lo era all’inizio, ma poi si appisolava. Più lo sgridavo e peggio era. Non capivo se lo faceva apposta per attirare l’attenzione (questa era una possibilità che era stata ipotizzata per il fatto che l’avanzamento di carriera mi aveva per forza di cose aumentato le ore fuori casa e quindi lui a modo suo si ribellava alla situazione) o per nascondere chissà quale problema. Quando si addormentava dava l’impressione di fregarsene dello studio e della mia fatica a studiare con lui per cui anche se ho cercato di esercitare molto l’autocontrollo, sono consapevole di aver detto frasi irripetibili. Al tempo stesso sono stata l’unica in grado di accompagnarlo, sostenerlo ed incoraggiarlo in questo percorso così faticoso.
Onestamente mi aspettavo di ricevere un grosso aiuto da parte di mio marito il quale vedendomi così sconvolta invece di sdrammatizzare ed incoraggiare, preoccupato della mia salute, sgridava il figlio e mi domandava se era il caso di sobbarcarsi tutta quella fatica fisica e psicologica.
Ogni tanto ci siamo illusi di guarigioni per qualche arco temporale libero da mal di testa, ma poi bastava poco per ricadere nel baratro.
Scolasticamente si andava verso un peggioramento: incominciava ad andare in pallone durante le verifiche, era come se non ragionasse più e cercasse solo di ricordare, incapace di ragionare rispondeva a caso. Solo che le cause di una simile situazione potevano essere molteplici.
Si è valutato di perdere un anno di scuola, ci dicevano che era una grave fobia scolare, che l’epilessia non poteva essere la causa dei nostri guai e tantomeno i relativi farmaci, ma nè io, nè lui siamo stati d’accordo. Per lui sarebbe stato una conferma dei grossi problemi, ma quali? Solo quelli indicati? Mi sembrava impossibile. La situazione sembrava aggravarsi, per fortuna mancava poco più di un mese alla conclusione della seconda media.
Abbiamo rivalutato il cambiamento di scuola, solo che ci sembrava peggiorativo (cambio di compagni, alzarsi prima al mattino….).
Era un ragazzino serio, che s’impegnava e ci dispiaceva non investire sul suo futuro, per cui grande argomento di discussione è stato la scelta delle scuole superiori. Se non fosse successo nulla probabilmente la scelta sarebbe ricaduta su un liceo scientifico, rinunciare in partenza, significava confermargli il problema, lui voleva fare il liceo, ma gli insegnanti non erano d’accordo. Aveva bisogno di un ambiente stimolante e protetto.
Io e mio marito non ce la siamo sentita di negargli la possibilità di provare.
L’esperienza del liceo è stata senz’altro positiva, l’ambiente sereno, incoraggiante, i compagni tranquilli, il carico giusto, seppur troppo pesante per lui. Voleva dimostrare a se stesso di potercela fare, di essere come gli altri, ma a quale prezzo e con che fatica. Si addormentava di pomeriggio, per cui non rimaneva molto tempo per studiare, se non dormiva, non rendeva, non riusciva a tenere il ritmo: scuola, compiti… Faceva diverse assenze, perchè ne aveva sempre una: emicranie, distorsioni, infiammazioni varie. Con grande aiuto della scuola, le ripetizioni continue in prima è riuscito ad essere rimandato di inglese e latino e passare in seconda. Solo, che forse più stanco, più stressato per il grande lavoro estivo, o forse perchè “doveva andare così”, ha iniziato subito ad ammalarsi, per cui si entrati subito nel circolo vizioso “assenze, recupero, maggior fatica, recupero, assenze”… Noi eravamo sempre dubbiosi, temevamo di “spremerlo troppo”, ma gli insegnanti lo hanno sempre incoraggiato, stimolato ed hanno insistito con noi affinchè scoprissimo al più presto “solo” la diagnosi, poi secondo loro avrebbe potuto farcela, perché aveva le potenzialità. Come se fosse facile! Visto le difficoltà, la gran quantità di assenze gli abbiamo proposto a più riprese di smettere, di cambiare, ma lui non ha mai voluto, allora ha continuato a pagarsi le ripetizoni. Siamo stati cattivi? Volevamo vedere se era davvero motivato, perchè da una parte diceva di non voler smettere, ma poi dall’altra sembrava sembrava svogliato, si addormentava perfino mentre studiava.
Abbiamo ancora insistito per ritirarlo da scuola in modo da non ricevere la bocciatura, ma non ha voluto, perché: “Se si va a scuola per imparare, stare a casa per evitarsi una bocciatura è stupido, quello che si imparara non va sprecato”, ha proseguito, ma da dopo pasqua non è più riuscito a frequentare.
Temevano molto le conseguenze della bocciatura, d’altronde per tv si sentono spesso brutte notizie, ma l’ha vissuta con maturità sostenuto da noi, dagli insegnanti che hanno sempre sdrammatizzato e dallo psicoterapeuta.
Nell’estate della bocciatura lui ha risposto continuando a prender lezioni di latino e visto che era arrivata anche la diagnosi di narcolessia con relativa terapia, ha voluto riprovare.
Onestamente è stato grazie all’alto livello di accoglienza ricevuto che siamo rimasti in quella scuola.
Individuata la diagnosi, speravamo che il percorso fosse in discesa, ma non è stato così, sarebbe stato troppo semplice! Abbiamo provveduto con ulteriori modifiche di terapie, ognuna con i suoi periodi di assestamento ed effetti collaterali ed interazioni da evitare.
Adesso la situazione è abbastanza assestata, certamente migliorata, rispetto agli anni scorsi, ma permangono grosse difficoltà di concentrazione.
Il ripetere un altro anno non sarebbe il problema, la questione è che questo non è garanzia di riuscita nel proseguo degli studi, perché i risultati nel nostro caso non dipendono solo dallo studio, ma dalle variabili che entrano in gioco durante lo svolgimento delle prove e dello studio a casa, per cui è capitato più volte di prendere voti ampiamente sufficienti o insufficienti della stessa materia a distanza di pochi giorni.
Saranno sufficienti pazienza, costanza, qualche ripetizione?
Non sappiamo quale sarà il proseguo scolastico, ma per ora sappiamo di averci provato e qualora decidessimo di smettere o di cambiare, in cuor nostro possiamo dire che non è stata fatica sprecata, perché lo studio ha comunque arricchito la sua persona.
INTERNET
Se lo spazio riservato a questo argomento fosse proporzionale al tempo che gli ho dedicato in questi anni, allora questo sarebbe il capitolo più lungo.
Cos’è stato internet per me?
Una grossa opportunità, uno sguardo sui maggiori ospedali, sui curriculum dei più famosi professori, sulle malattie rare, sui centri in Italia e all’estero, un compagno di viaggio quotidiano che mi ha permesso di raggiungere la “laurea ad honorem” in medicina. Scherzo, ovvio, ma è pur vero che mi ha permesso di capire in parte il linguaggio medico, di proporre ipotesi almeno plausibili, di controbbattere e di cercare di ragionare, integrare le informazioni ricevute. Se non mi fossi documentata avremmo subito, ci saremmo fermati alle prime diagnosi.
Devo ammettere che la mia caparbietà e determinazione non sono state apprezzate, anzi, più volte mi è stato detto che io dovevo fare la mamma, non studiare medicina su internet. Tale partecipazione è stata a volte interpretata come il tentativo da parte mia di sostituirmi ai medici. Anche se il fine ultimo era ridurre la mia partecipazione attiva, costoro avevamo un minimo di ragione nel senso che in me tutto ciò provocava un grosso stress psicologico.
Sapevo che internet era ed è uno strumento importante, ma anche pericoloso per il rischio di dipendenza e di concentrare troppo la mente sulle possibili malattie più o meno gravi. Ero consapevole, mi ero posta dei limiti temporali giornalieri e ogni tanto per difendermi ero costretta a smettere di colpo le mie letture, salvo poi riprendere. D’altronde gliel’avevo promesso: “Stai tranquillo, non lascerò nulla di intentato” e siccome dei medici non mi fidavo più cercavo di compensare attraverso lo studio e la ricerca.
Relegare ad internet solo la ricerca, nel mio caso sarebbe riduttivo, poiché è stato strumento di collegamento via mail con amici che mi hanno sostenuta a distanza. L’angoscia infatti mi assaliva senza limiti di orario per cui scrivere era l’unico sistema che non fa rumore, non disturba e permette una certa privacy dai figli che a quell’età ascoltano e capiscono tutto. I mie ragazzi erano informati di ciò che accadeva, ma ovviamente tutto era “filtrato”; non potevo permettere che ascoltassero le mie ansie genitoriali, perchè si sarebbero preoccupati troppo. Io avevo estremo bisogno di uno spazio mio dove poter “svuotare il sacco”.
Non è la stessa cosa parlare a voce o via mail, ma ho fatto di necessità virtù e sono convinta che solo il dialogo ed il confronto interno ed esterno alla famiglia mi abbiano permesso di non soccombere, di trovare nuovi punti di vista e nuovi stimoli.
MEDICI E MEDICINE
La presa in carico del neuropsichiatra infantile all’inizio mi ha da una parte confermato la presenza di problemi, dall’altra però mi ha sollevato: finalmente ci sarebbe stato uno specialista che si sarebbe occupato di noi.
Vivevo nella convinzione che “per ogni problema esistono una o più soluzioni, basta cercarle”. Questo atteggiamento di fondo per me era ed è uno stile di vita, per cui a livello inconscio davo per scontato che tutti si sarebbero dati da fare, ognuno secondo il proprio ruolo, per raggiungere l’obbiettivo di permetterci di vivere meglio. Partivo anche dall’errato presupposto, che i vari medici avrebbero certamente svolto sapientemente il loro compito e qualora fosse stato necessario avrebbero collaborato fra di loro. Leggendo poi su internet sembrava abbastanza facile controllare l’epilessia con le normali terapie per cui il mio atteggiamento iniziale di fronte alla malattia, ai medici e alle medicine era senz’altro positivo ed ottimista.
Ben presto iniziai a fare i conti con la realtà: livelli di competenza, disponibilità, struttura organizzativa, approcci alla diagnosi molto diverse fra di loro già all’interno della stessa provincia e ancora più evidenti fra le varie regioni. Man a mano che aumentava la mia consapevolezza a questo proposito aumentava anche il mio senso di smarrimento. Sarei stata disposta a fare qualunque cosa pur di risolvere, ma dovevo agire con razionalità pensando al bene di mio figlio, per cui era importante evitargli visite superflue onde preservarlo da inutili stress. Avvertivo un grosso carico psicologico per la responsabilità. Praticamente la “dose” di farmaci veniva commisurata in base al peso, ai valori del sangue, ma anche in funzione delle mie descrizioni di comportamento (condivise con mio marito, ma per forza di cose, io ero colei che era sempre presente) per cui avvertivo il rischio di non essere obbiettiva, di influire sulla terapia che sarebbe stata prescritta. Per me era una grossa responsabilità che avrei voluto condividere con il pediatra, con il quale c’era una conoscenza-fiducia solida, ma sinceramente mi ha fatto capire che occorrevano competenze più specifiche delle sue.
Io e mio marito condividevamo le decisioni, ma sulla base di quanto ci veniva detto, diciamo sulla fiducia. Poi nel tempo, abbiamo capito che non potevamo più concedere fiducia immediata per cui ho cercato di “attrezzarmi per recuperare” quel minimo di competenza necessaria per capire il linguaggio medico e poter in qualche modo controbattere. Mi arrabbiavo, perché siamo costretti ad una medicina così specialistica e noi a fare da pallina da uno specialista all’altro, mancava una figura in grado di fare da “supervisore”, da ponte. Si va dal neurologo, dallo psicologo, dal psicoterapeuta oppure dall’ortopedico, dal fisiatra, dall’osteopata, dal fisioterapista, dal massaggiatore senza quasi conoscere la specifica competenza dei singoli ruoli. L’omeopatia fa eccezione, ma non ce la sentivamo di eliminare completamente la medicina tradizionale per la piena consapevolezza dei rischi che avremmo potuto correre.
Nel mio intimo nutrivo ancora il desiderio di svegliarmi un mattino per trovare tutto risolto, come se fosse trattato solo di un brutto sogno.
Lo psicoterapeuta fin dall’inizio mi disse di non cercare soluzioni miracolistiche, devo ammettere che l’avrei ucciso all’istante, perché stava infrangendo il mio sogno di guarigione immediata. Una professoressa dell’ospedale, un giorno, fra le “frignacce” che riuscì a dire, parlò di psicoterapia seria fino ad almeno 18 anni. Ma saremmo mai sopravvissuti? E poi ci avevano detto che dovevamo andare anche noi, perchè altrimenti non avremmo potuto reggere; forse avevano ragione. Io avevo l’impressione di rimanere schiacciata dalla situazione, di avere in primi segni di “squilibrio”, perdevo lucidità…ma i servizi sociali non “ci prendevano in carico”, perchè fortunatamente non eravamo un caso così grave, per cui dovevamo gestirci privatamente. Le tariffe erano in media circa 50 eur alla volta, se avessimo fatto come dai consigli ricevuti sarebbero state 150 eur alla settimana, 600 al mese. Altro che part-time per assicurare maggior presenza, avrei dovuto lavorare ancora di più. Chiesi comunque il part-time su consiglio dello psicoterapeuta. Per fortuna lui non ci chiedeva nulla, facevamo come potevamo. Mio papà mi aveva chiesto se avevamo bisogno di soldi, ma io all’epoca non avrei osato.
Dopo qualche “giro” fuori programma in pronto soccorso, abbiamo avuto il “lume”, di mettere in dubbio una diagnosi molto grave “spiaccicata in malo modo” direttamente all’interessato. Dopo parecchi mesi, per fortuna si è acceso il “campanello del dubbio” sulle modalità, sui modi, tempi…sulla competenza dei medici incontrati. Non eravamo certamente esperti, ma siccome non ci sentivamo tranquilli abbiamo deciso di intraprendere anche una strada di verifica. Sapevamo che dovevamo almeno mantenere un ospedale di riferimento in zona, per cui non era opportuno esplicitare i nostri pensieri, perchè in futuro avremmo avuto ancora bisogno e purtroppo fuori regione non ci venivano garantite le visite urgenti. Abbiamo deciso di avere un consulto presso un altro grande ospedale pediatrico fuori regione ed abbiamo iniziato ad aprire un pochino gli orizzonti.
Finalmente riducendo l’antiepilettico per magia il nostro ragazzino sembrava stare meglio, essere più sveglio. I professori dicevano che studiava di più. Non era vero, semplicemente era meno addormentato. Solo che nessuno si azzardava a ridurre drasticamente il farmaco.
Abbiamo vissuto sempre alla ricerca di un farmaco che riducesse gli effetti collaterali sulla sonnolenza. Solo che per ogni cambio farmaco occorrevano circa 2 mesi per diminuire, poi inserire, aumentare per gradi, stabilizzare, con tutti gli effetti collaterali annessi e connessi.
Avremmo voluto cambiare medici, ma dove e da chi?
Una volta il medico di base ci disse che i genitori non trovavano i medici, perché non accettavano la malattia del figlio, poteva anche essere vero, ma noi non sapevano ancora quale malattia accettare, sicuramente non era solo l’epilessia e non poteva essere cattivo carattere, non voglia, stress da scuola o malattia psichiatrica. Dopo una lunga frequentazione con un mega primario (pagato privatamente) l’essere scambiati telefonicamente per un altro caso, ci ha fatto definitivamente decidere di abbandonare anche l’altro ospedale della nostra regione.
Tra le varie Asl della nostra città, un servizio di neuropischiatria aveva un sito che mi sembrava all’avanguardia, così un mattino decisi “di fare un’incursione” naturalmente fuori orario, ma facendo finta finta di cercare un medico di cui avevo ricavato il nome dal sito, così ebbi modo di osservare organizzazione, ambiente ed accoglienza. Contattai i vari medici del reparto per fissare un appuntamento privato, ma appena sentivano il motivo (tipo di malattia, dov’eravamo seguiti, la zona di residenza) dicevano che non potevano prenderci in carico per i più svariati motivi. Non c’era problema per qualche prescrizione di calmanti, caso mai ne avessimo bisogno, ma per la presa in carico privata o pubblica non c’era posto. Nel frattempo avevo raccolto informazioni positive della responsabile del reparto, che contattata ha mostrato un minimo di opposizione, ma alla mia insistenza ci ha fissato un appuntamento in brevissimo tempo.
Nostro figlio ormai non aveva un bel rapporto con la categoria medica in generale e non ha avuto un bell’approccio con la dottoressa, anzi ha esordito dicendo: “Io non ci volevo venire e mamma che mi picchia”, mi sono vergognata e ho pensato: “Chissà cosa pensa, nostro figlio è sempre pieno di lividi per le cadute, speriamo che creda a noi e non a lui, altrimenti va a finire che ci troveremo con una denuncia per maltrattamenti, lavora così a stretto contatto con il tribunale…, ormai abbiamo iniziato, speriamo che sappia fare bene il suo mestiere”.
L’approccio cauto, sereno ci ha spinti a continuare, così dopo gli esami del sangue per escludere alcune malattie genetiche (mai effettuati in precedenza), siamo ritornati. L’intenzione era di procedere senza ulteriori farmaci, ma ci sembrava che fosse caduto in depressione, avevamo già avuto periodi del genere ma erano brevi. Lo psicoterapeuta ci aveva detto di richiedere una visita urgente. Era la prima volta in quasi tre anni che abbiamo sentito un medico chiamarci per verificare lo stato di salute di nostro figlio e visto che la situazione si stava aggravando questo ci ha aiutato psicolgicamente.
Scarsissima concentrazione scolastica, rabbia, nervosismo, primi segni di un grande disagio. Abbiamo introdotto un farmaco, al pomeriggio ha iniziato a star meglio, ma alla sera sono comparsi “incubi” importanti . Avvisata la dottoressa si è provveduto ad effettuare elettroencefalogramma per escludere crisi epilettiche e così abbiamo effettuato un breve ricovero per la somminstrazione controllata dei farmaci e l’esecuzione di test. Si è interrotto il farmaco perchè scatenante gli incubi. Passati ad altro farmaco gli incubi non sempre aumentati fino a diventare ingestibili e pericolosi. Altra visita, altre gocce, sembrano funzionare, ma con effetti collaterali di notevole entità: sonnolenza, pressione bassa, mal di stomaco ed allora altri farmaci…ci va una scheda per non dimenticarne nessuno.
I se e i ma non servono molto, ma perchè i medici che lo hanno visitato non hanno fatto subito i vari esami del caso? (risonanza, test cognitivi…). Sempre la famiglia a pretenderli dopo aver studiato su internet o aver interpellato altri specialisti che li richiedevano come normali in casi simili. A noi dicevano che eravamo noi genitori a voler etichettare un figlio come malato. Avessero evitato tanti preconcetti magari non saremmo arrivati a stare così male!
Non ero uno specialista, ma non credevo che fosse solo una crisi adolescenziale, perché io a casa scorgevo anche momenti di lucidità, intelligenza e normalità.
Nel frattempo la situazione medica e scolastica peggiorava, si abbandonava la scuola, urgeva la necessità di una diagnosi. E’ stato perfino ipotizzato l’intervento di un educatore al pomeriggio, perché ormai ci stavano giudicando incapaci o addirittura la causa del progressivo peggioramento della situazione, solo l’intervento dello psicoterapeuta ha scongiurato questa ipotesi.
Mal di testa sempre più frequenti, distorsioni frequenti (stava crescendo anche molto rapidamente) la preoccuapzione e l’ansia salirono alle stelle.
Continuavamo a “fare la pallina” da un uno specialista all’altro, ognuno prescriveva esami, un delirio.
Era pesante, non sapevamo più se era importante continuare con le ricerche, avere una diagnosi, ma i medici che insistevano lo facevano per noi o per studiarci?
Essere senza diagnosi significava anche essere senza diritti, permessi, ma a quel punto essendoci circa 8000 malattie rare identificate non era poi così scontato trovare la nostra. Forse era meglio risparmiare le nostre energie e concentrarci sulle modalità per migliorare la nostra qualità di vita: già bell’idea, ma non conoscendo le cause, tutti i tentavi che facevamo a volte funzionavano a volte no, per cui tutto sembrava casuale ed inspiegabile.
Ad un certo punto per sfinimento, siccome tutti i farmaci avevano avuto effetti collaterali esagerati abbiamo preso una posizione netta: “Non abbiamo più intenzione di somministare nessun farmaco fino a diagnosi scritta definitiva, manteneniamo solo gli antiepilettici”. Da quel momento si sono programmati i test cognitivi e finalmente si è presa in considerazione seria, l’ipotesi da me suggerita alcuni mesi prima, di narcolessia.
L’apice del nostro rapporto conflittuali con una parte della categoria medica è stato raggiunto quando abbiamo scoperto dopo mesi e mesi di attesa che gli esiti di un esame spedito negli Usa per escludere una malattia rara mortale non sarebbero mai arrivati, in quanto il secondo campione non era mai stato spedito. Nel corso del tempo quel tipo di esame non era più così importante, per cui se volevamo potevamo pagarcelo. Non era più chiaro il significato del termine importanza: importante per noi, per il centro di ricerca o per le tasche del servizio sanitario regionale? Sono poi venuta a sapere che si trattava di un test del tutto sperimentale, senza valore diagnostico e che la nostra Asl l’avrebbe comunque pagato, come capitato per il primo campione, qualora richiesto dal centro che ci seguiva. Peccato che queste informazioni sono rimaste nella testa di chi avrebbe dovuto comunicarcele. Ovviamente dopo aver inviato un reclamo dettagliato con il semplice scopo di evitare ad altri simili trattamenti, hanno risposto comunicando il loro dispiacere per l’accaduto e sottolineando che certamente si trattava di un malinteso. In sostanza che non avevamo capito. Avremmo potuto proseguire anche con una richiesta danni, ma dovevamo risparmiare le energie, che grazie a quest’esperienza si erano ancora ridotte.
Capisco che dovevano studiare quella malattia, ma almeno l’onestà professionale di informarci correttamente. Non ci siamo mai sottratti agli esami sperimentali, per permettere alla scienza di avanzare e di aiutare altre persone, ma nella correttezza delle informazioni, non nel gioco delle parole, altro che diritti del malato! Quanto stress inutile, quanta salute, quanto tempo sprecato! Quanto ci siamo sentiti presi in giro! Soprattutto perché nel frattempo gli altri medici erano rimasti fermi in attesa di quegli esiti, che guarda caso non arrivavano mai. Sembrava un film già visto: intuizione, esami, attese, nulla.
A quel punto ormai era chiaro che dovevamo rivolgerci fuori regione.
Per fortuna intanto, da qualche mese io avevo individuato, a forza di notti passate su internet, l’altra possibile malattia di mio figlio, per cui ero finalmente riuscita a pretendere i test cognitivi che risultarono compatibili con la mia ipotesi. A quel punto individuai quello che sembrava essere il miglior centro di riferimento nazionale, ma i poli erano due. Come scegliere? Ho letto il curriculum dei medici ed ho escluso quello di età pensionabile, ero stufa di fior di primari che lavorano ancora per arrotondare, ma che mentalmente sono già in pensione. Nell’indecisione di quale centro scegliere ho telefonato ad entrambi sia per prenotare una visita urgente con la mutua o privata.
Sono rimasta allucinata per la differenza di approccio: in un centro avrei dovuto telefonare dopo sei mesi per prenotare circa dopo un anno, se volevo prenotare privatamente in una settimana avrei ottenuto l’appuntamento, nell’altro centro invece mi hanno passato il dott. Plazzi che dopo alcune domande ci ha fissato l’appuntamento dopo 10 giorni con la mutua e alla mia esplicita domanda sulle motivazioni che avevano portato ad escludere l’attività privata, la risposta è stata telegrafica: “per scelta professionale”.
Abbiamo scelto con il cuore, intuendo di essere ormai sulla strada giusta. Incredibile: dopo una decina di giorni dalla prima visita, come preannunciato ci hanno telefonato per fissare il ricovero dei tre giorni al termine del quale avevamo diagnosi e terapia. Ricordo il dott. Plazzi che con molta calma e cautela comunicò a me e a mio marito la diagnosi, per noi fu una vera liberazione. Non ho osato, chissà cosa avrebbe pensato, ci conoscevamo appena, ma istintivamente lo avrei abbracciato e sarei scoppiata a piangere. Una diagnosi di malattia non dovrebbe mai far piacere, questa invece sì: allora non eravamo matti, avevamo fatto bene ad insistere. Potevamo finalmente iniziare a guardare al futuro. Non importa se eravamo in due ad avere la narcolessia, il fatto stesso che io fino ad allora avessi fatto vita normale era in fondo un incoraggiamento.
Mi illudevo di risolvere la questione di mio figlio facilmente, ma la presenza dell’epilessia continuava a complicare il quadro clinico.
PATENTE
L’incontro-scontro fra me e la narcolessia, però riguarda la patente.
Come già detto, io sono arrivata alla diagnosi attraverso la ricerca della malattia in mio figlio, altrimenti probabilmente non me ne sarei accorta. Sì, mi addormentavo nelle sale di attesa o davanti alla tv, ma con tutto quello che facevo era il minimo che potesse capitare. Ogni tanto mi sembrava di avere qualche “calo” che io imputavo essere di zuccheri. Qualcuno mi aveva detto che ero depressa, ma dopo anni di pellegrinaggi per ospedali alla ricerca di una diagnosi per nostro figlio era il minimo che potesse succedere.
In sede di rinnovo patente ho ritenuto giusto dichiarare il farmaco assunto e mi sono ritrovata alla commissione per le patenti speciali. Non mi ero mai sentita malata e nemmeno avevo mai vissuto come tale. Improvvisamente il rischio era di diventare davvero invalida per le prescrizioni a cui sarei potuta andare incontro, limitazioni che avrebbero non solo compromesso la mia vita personale, lavorativa, ma soprattutto quella dei miei figli i quali, data l’età ed il luogo dove abitiamo, hanno ancora bisogno di molti trasporti da parte mia. Per fortuna alla fine ho avuto il mio rinnovo.
CONCLUSIONE
Dopo sei lunghi anni non abbiamo risolto, ma siamo giunti ad una diagnosi, abbiamo trovato i medici di riferimento e davvero ricominciamo a costruire per il futuro. Un futuro in salita, con diverse battaglie da combattere, ma un futuro. Siamo stati fortunati, perchè nell’elenco delle 8000 malattie rare ce ne sono alcune senza via d ’uscita, poteva essere molto peggio. Dalle premesse mai avremmo osato sperare quanto oggi seppur con difficoltà viviamo.
Non conosciamo il futuro e chi lo conosce? Ma se solo ci fossimo fermati alle prime diagnosi non saremmo qui adesso. Viviamo purtroppo ancora con un forte senso di precarietà, perché i ricordi sono ancora molto vividi, per cui spesso fatti banali hanno una cassa di risonanza sproporzionata.
Se penso alla nostra storia provo ancora oggi un sacco di sentimenti ed emozioni: sensi di colpa, rammarico per i tanti errori commessi, per gli effetti collaterali dei farmaci dati sotto controllo medico sulla base di ipotesi di malattie diverse, rammarico per la quantità di tempo perso prima di giungere alla diagnosi definitiva. Abbiamo sbagliato moltissimo, soprattutto io, perché data la situazione sono stata più permissiva di quanto sarei stata se non ci fossero state queste problematiche.
C’è comunque la consapevolezza di aver fatto il meglio che eravamo in grado di fare.
Sento dal profondo del cuore di esprimere un ricordo ed una preghiera per tutti i genitori che non sono stati così fortunati, per coloro che hanno incontrato la malattia, la morte di un figlio, forse in assoluto il dolore più grande per un papà ed una mamma.
A coloro che si trovano ad esperimentare la malattia, di qualsiasi tipo, ma soprattutto se rara, ripeto ciò che a mia volta mi sono sentita dire un sacco di volte: “Non demordere, non lasciarti abbattere dallo scoraggiamento, non aver paura di chiedere ai medici e pretendi spiegazioni sui farmaci. Non lasciarti opprimere dalla vergogna, dal senso di vuoto che ti prende. Non preoccuparti del giudizio altrui, non chiuderti. Coraggio! Chiedi aiuto e se non trovi ascolto e soddisfazione, rivolgiti a qualcun altro, ma non tenerti tutto dentro, se non lo fai per te fallo per chi ha bisogno di te”.
Ovviamente ci siamo trovati nella difficoltà di seguire neurologi diversi per entrambe le patologie, perché non erano d’accordo sull’approccio terapeutico; così abbiamo iniziato a pretendere collaborazione fra loro. Noi famiglia non potevamo più sostenere la conflittualità che ne scaturiva e farci sempre da tramite, perché i primari in genere non si abbassano a telefonare ai colleghi. Pensavamo di doverci dirottare su Bologna, ma abbiamo scoperto un altro neurologo epilettologo nella nostra città che ha formulato un’ipotesi diversa per il tipo di epilessia. Devo ammettere che non gli ho dato la minima fiducia, era il sesto o settimo neurologo che vedeva gli elettroencefalogrammi e pretendeva di cambiare diagnosi e terapia, l’unico però che ha voluto vederli tutti. Siccome ormai non avevamo nulla da perdere, quella non era più vita, abbiamo fatto secondo le sue indicazioni pur mostrando scarsa fiducia. Abbiamo verificato che l’auspicata collaborazione fra specialisti ci fosse davvero, quando necessaria e abbiamo continuato a tenere i contatti con entrambi i medici, eliminando finalmente di fatto i rapporti con gli altri specialisti (interagire con 4-5- specialisti è alquanto complicato, non si sa mai di chi è la competenza, si sbaglia sempre anche cercando di usare logica e buon senso. La situazione finalmente ha iniziato a migliorare.
A distanza di anni posso dire che in fondo il mio approccio di fiducia nel prossimo, mi ha permesso di costruire rapporti positivi con le persone, in ambito medico invece occorrerebbe essere più prudenti, ricordarsi che la fiducia si conquista nel tempo, non si dà dopo le prime visite, soprattutto se private. Oggi posso dire di essere una mamma più diffidente, che non si accontenta più di “fare solo la mamma”. Si tratta di un diritto, una responsabilità che io e mio marito abbiamo nei confronti dei nostri figli e che non intendiamo più delegare a nessun altro a costo di dover cambiare medico.
Concludo questa riflessione ricordando i molti medici ed il personale sanitario, il dott. Plazzi e la sua equipe, che svolgono la loro professione con coscienza professionalità e dedizione.
A loro il nostro grazie.
Ricorda che come scritto in questa poesia:
“Nessuno può prendere il tuo posto su questa terra.
Ci sono fiori che solo tu puoi raccogliere.
Melodie che solo tu puoi scrivere.
Sorrisi che solo tu puoi far splendere sul tuo volto.
Nessuno può prendere il tuo posto su questa terra.
Ci sono missioni che solo tu puoi compiere.
Avventure che solo tu puoi intraprendere.
Sogni che solo tu puoi realizzare.
Nessuno può prendere il tuo posto su questa terra.
Tu sei unico e irripetibile.
Tu sei ciò che nessun altro sarà.
Tu sei come un prezioso frammento del mosaico dell’umanità:
se ti butti via o sciupi la tua esistenza
nessuno potrà mai riempire quel vuoto.
Nessuno può prendere il tuo posto su questa terra.
Lamentarti o fare la vittima,
sentirti perseguitato o sfortunato,
arrabbiarti o vendicarti non ti servirà a nulla:
rimarrai chiuso nel ghetto della tua infelicità.
Nessuno può prendere il tuo posto su questa terra, ma tu puoi prendere il tuo posto su questa terra
e dire il tuo sì al dono della vita!
Nessuno può prendere il tuo posto su questa terra,
perché c’è uno spazio di libertà e di azioni tutto tuo:
sta a te lavorarlo perché dia frutto!
Nessuno può sudare al posto tuo, sarebbe come toglierti la dignità dello sforzo.
Nessuno può sostituirsi al posto tuo,
sarebbe come toglierti la fiducia.
Nessuno può studiare al posto tuo,
sarebbe come farti l’elemosina di cultura.
Tu potrai costruire come distruggere
la tua esistenza: sii attento e prudente
e sappi riconoscere la verità dalla falsità.
La verità ti renderà libero, la falsità ti renderà schiavo!
Ciao, in bocca al lupo!
grazie a coloro che in questi anni mi hanno ascoltata, incoraggiata e sostenuta, anche senza far troppe domande, offrendo vicinanza, amicizia e sopportazione
grazie ai nostri figli, stimolo, distrazione ed impegno quotidiano, grazie alla loro memoria corta, alla loro capacità di cadere e di rialzarsi subito
grazie a quei medici che non hanno solo ragionato in base al protocollo, ma che ci hanno trattato con rispetto, senza pregiudizi, come persone con un nome e che soprattutto sono stati sinceri
un grazie particolare a Domenico che ci ha accompagnati “per mano” giorno per giorno accogliendo anche le mie accuse per i ritardi nei risultati, senza di lui non saremmo qui oggi.