Una malattia in due – di Erika

Condividere la stessa malattia in due

di Erika

Vivere la mia malattia insieme ad un’altra persona mi fa capire tanto.

Capisco innanzitutto cosa significa vivere con un malato e il peso che vi porta.

Capisco cosa significa non dormire la notte a causa dei suoi mormorii, i gemiti di dolore, le apnee, allucinazioni o sogni lucidi, borbottii, la casualità delle parole dette nel buio, le paralisi.

Capisco cosa significa fermarsi perchè il malato deve dormire, e accettare il suo silenzio e la sua rabbia se non può assecondarne il sonno. Per me, che sono diventata la mia malattia, non è semplice, ma lo capisco perchè Massimo fa esattamente le stesse cose che faccio io.

Ma ora capisco i miei genitori, e capisco cosa vuol dire amare una persona vedendola soffrire, e odiare la sua sofferenza perchè toglie il sonno anche a te che gli stai vicino.

Capisco le notti insonni di mia madre ad asciugarmi la schiena bagnata e parlarmi seguendo il filo insensato delle mie allucinazioni, a tentare di convincermi che devo dormire che “non è reale amore, non è niente, ci sono io con te ora, chiudi gli occhi, non avere paura”.

Questa malattia, che porterebbe chi ci sta intorno alla disperazione nel caso in cui non prendessimo farmaci, ti da una vaga idea di cosa significa amare qualcuno. E in ogni caso la gratificazione più grande è avere coscienza del fatto che sono proprio io ad avere avuto l’onore di essere stata scelta. Io che non avevo la forza di mettere un piede davanti all’altro mi ritrovo ora a centinaia di km da casa, alle 3:30 del mattino, di fianco a chi mi rende qualche notte un inferno e la vita un paradiso.

Sono incredibilmente felice.

Il mio incontro con la Narcolessia – di Icilio Ceretelli

Il mio incontro con la Narcolessia

di Icilio Ceretelli

Tutto ha avuto inizio nel lontano 1985 a Luco di Mugello, un paesino delle colline toscane dove mi ero recato assieme a un amico, Renzo, per volontariato; dovevamo portare in vacanza dei ragazzi meno fortunati dei nostri e avevamo deciso di portare con noi i nostri figli per coinvolgerli in questa iniziativa pensando che fosse molto educativo per loro.

Come deciso dall’organizzatrice, il nostro turno iniziava il primo giorno d’agosto per terminare la mattina del sedici; con allegria il primo agosto partimmo di buonora per arrivare prima della colazione presso la scuola elementare di Luco dove i ragazzi erano stati sistemati.

Appena arrivati, fummo accolti dagli educatori (cosi eravamo chiamati) che ci presentarono ai ragazzi, andammo tutti insieme a fare colazione per cominciare a conoscerci e poi, dopo aver mangiato, fummo convocati in segreteria dove ci venne assegnato un gruppo di ragazzi.

Mi fu presentata la signora Vanna, con la quale condividere la custodia di otto bambini di un’età che andava dai quattro ai nove anni, gli educatori uscenti ci raccontarono le loro impressioni sul gruppo, poi riunendo i ragazzi dissero loro che dal quel momento noi eravamo le persone che sarebbero state con loro per il resto della vacanza: cosi iniziò il primo giorno di contatto con quei piccoli che si ritrovarono da un momento all’altro a relazionarsi con due perfetti sconosciuti.

I miei due figli, Tiziano e Patrizio, che mi avevano seguito in questa “avventura”, avendo entrambi dieci anni perché gemelli, erano stati affidati a un altro gruppo, fortunatamente erano in quello del mio amico Renzo, e la cosa mi rendeva abbastanza tranquillo.

Trascorsero così alcuni giorni dove le nostre attività di gruppo a volte s’incrociavano con quelle dei miei figli e tutto sembrava nella norma, Patrizio e Tiziano partecipavano con il solito entusiasmo che li ha sempre contraddistinti a tutte le occasioni di gioco.

Quando mancavano ormai tre o quattro giorni al termine del nostro periodo di vacanze, con il nostro gruppo decidemmo di fare una gita verso il rifugio di Moscheta.

Nonostante le giornate piene di attività, durante quel periodo non mi ero mai dimenticato dei miei figli: oltre ad alcuni controlli giornalieri, puntualmente tutte le sere m’informavo dal mio amico su come fosse andata la giornata e tutto sembrava regolare, nessuno si aspettava ciò che sarebbe accaduto da lì a poco a Patrizio.

Tornati giù da Moscheta dopo due giorni faticosi per noi, ma colmi di soddisfazione per l’affiatamento trovato con i ragazzi, ecco l’imprevedibile: al rientro nella scuola, mi accorsi che Patrizio non era partecipe come prima alla vita di gruppo, chiesi a suo fratello se ci fossero problemi, se avesse litigato con qualcuno, perché lo vedevo in disparte e non era il suo consueto modo di fare. Preoccupato, chiesi a Patrizio se si sentisse male, ma lui mi rispose che era stanco e voleva riposarsi un po’. La cosa non mi preoccupò più di tanto, sapevo che le gite nel bosco, le partite di pallone e altre attività potevano essere causa della sua stanchezza. Sopraggiunse l’ora della cena, lui che era sempre fra i primi ad arrivare, non si presentò e nessuno seppe dirmi dove fosse.

Mi preoccupai molto, chiesi a Vanna di controllare i ragazzi per la cena e andai alla ricerca di Patrizio, lo trovai sdraiato nel prato dietro la scuola, pensai a un malore e corsi verso di lui chiamandolo.

Non rispondeva e la cosa si presentava molto seria, ma avvicinandomi mi accorsi che dormiva beatamente.

Mi chinai su di lui e svegliandolo gli chiesi se si sentisse male, ma lui rispose che si era addormentato perché era stanco e quindi non detti molto peso all’accaduto e dopo alcuni minuti, una volta sveglio, andammo a cena.

Mancavano due giorni al termine della vacanza, pensai erroneamente che una volta tornati a casa, dato che saremmo partiti per Scalvaia, un paesino della Maremma, avrebbe avuto modo di riposarsi e tutto sarebbe tornato alla normalità.

Mi sbagliavo. Quella vacanza non la dimenticheremo mai: Patrizio dormiva di continuo e ogni volta che andava a giocare con i ragazzi dovevamo andare a cercarlo perché si addormentava ovunque e non tornava a casa. La cosa allora ebbe un’altra luce e cominciammo a chiederci cosa poteva essere successo.

Non è facile trovare le parole per spiegare il nostro stato d’agitazione, mi venne alla mente che nel gruppo dei più grandi, ragazzi di diciassette anni, alcuni avevano avuto problemi di droga, spinelli e cose simili che però, a detta dei medici, erano stati tutti superati.

La situazione non migliorava, perciò con mia moglie Simonetta decidemmo di tornare a Firenze per vedere di chiarire quanto stava accadendo, seppur consapevoli che nel periodo di ferie non era facile trovare soluzioni.

E così, da quella estate, ebbe inizio il nostro calvario.

Rientrammo a Firenze e fortunatamente il nostro medico era presente, gli raccontammo quanto accaduto, facendogli presente il nostro sospetto, gli apparve tutto molto strano, ma visto la nostra insistenza e non avendo altri elementi, acconsentì a fare le analisi tossicologiche per vedere se fosse accaduto qualcosa: tutto negativo.

I giorni passavano e la situazione non migliorava, anzi, iniziammo a farci delle domande, “sarà un tumore” e “ti ricordi da piccolo è caduto sbattendo violentemente la testa” e mille altri pensieri con i quali la nostra mente combatteva cercando di capire quale fosse la causa di tutto quel sonno. Finalmente arrivò settembre, tutte le attività lavorative e anche quelle sanitarie riaprirono, mentre noi continuavamo a cercare di capire cosa avesse nostro figlio.

Iniziarono cosi le prime visite, con esami del sangue per vedere se ci fossero problemi epatici, ma tutto risultò negativo; parlando con i medici facemmo presente che Patrizio fino a pochi giorni prima stava bene e di colpo, senza alcun motivo apparente, aveva iniziato a dormire di continuo.

Anche ai medici raccontammo che da piccolo aveva sbattuto la testa con una ferita lacerocontusa, che era stato ricoverato una notte al Mayer per accertamenti, ma avevano dato esito negativo. Questo dato fu sufficiente perché gli prescrivessero una tac, ed iniziò la ricerca della struttura che potesse farla nel più breve tempo possibile.

Come si può immaginare le liste d’attesa erano infinite, ma “se puoi pagare la tac, si fa anche domani”, e allora non stai lì a pensare, fissi l’appuntamento per il bene di tuo figlio e per la cassa di chi sfrutta le malattie. Così facemmo.

Questo aspetto, comunque, era il meno significativo.

Non fu facile almeno non lo fu per noi, spiegare a Patrizio perché dovesse fare tutte quelle analisi, non fu facile allora e negli anni a venire mantenere la stessa attenzione per Tiziano, per non farlo sentire diverso dal fratello che in quel momento aveva molte più attenzioni di lui.

Ancora oggi mi domando se ci siamo riusciti, sentendomi, forse a torto, un po’ in colpa nei suoi confronti.

I giorni che precedettero la diagnosi della tac ci tennero sulle spine, poi finalmente arrivò la risposta: non c’erano tumori, non c’era alcuna malformazione, ma restava un piccolo dubbio di una macchiolina bianca che sarebbe stato opportuno far vedere ad un neurologo, e allora via a prendere un nuovo appuntamento, questa volta alla neurologia di Careggi.

Per velocizzare i tempi al fine di ottenere una visita in reparto di neuropsichiatria infantile, ci venne consigliato di far visitare nostro figlio nell’ambulatorio privato del Professore allora responsabile del reparto: ancora una volta ci trovammo a pagare senza nemmeno pensarci, e guai chiedere la fattura, non sarebbe stato garbato, quasi che, seppur pagando, il professore ci stesse facendo un grosso favore.

Finalmente entrammo in reparto e, mentre a Patrizio venivano fatti esami di ogni tipo, noi continuavamo a far presente a tutti i dottori che incontravamo che Patrizio dormiva di continuo, ma nessuno sembrava prendere sul serio quanto riferivamo.

Dopo tre o quattro giorni, incontrammo la dottoressa responsabile del reparto, della quale non ricordo il nome o forse l’ho voluto dimenticare, per la risposta assurda che dette alla mia domanda.

Chiedendole se avesse scoperto cosa aveva mio figlio mi rispose: “lei si preoccupa troppo per suo figlio, vede come gioca tranquillo anche con ragazzi molto malati” e non mi dette una diagnosi.

Trattenendomi a stento e solo per la presenza di mia moglie, mi rivolsi a lei con un tono di voce che tradiva la mia falsa calma e le feci presente che lei affrontava con più distacco la situazione perché il figlio non era il suo. In quello stesso momento mi resi conto che era stato tutto tempo perso, presi mio figlio e lo portai via, reprimendo in me la voglia di mandare tutti a quel paese.

La scuola nel frattempo era iniziata, ricordo ancora oggi il disagio che provammo nel dover far presente il problema di Patrizio alla preside della scuola media che mio figlio cominciava a frequentare, come farle capire che Patrizio soffriva di una malattia che lo faceva addormentare di continuo, ma della quale non sapevamo nulla, cosa rispondere alle solite domande: è contagiosa? dobbiamo svegliarlo o ci sono controindicazioni? e noi ci stringevamo nelle spalle e non sapevamo cosa rispondere. E’ semplicemente impossibile spiegare il disagio e la frustrazione che provavamo in quei momenti, ci sentivamo inutili, dei genitori falliti che non riuscivamo a dare nessun aiuto al proprio figlio.

Le idee più strane percorrevano la nostra mente, so che entrambi avevamo paura che da lì a poco potessimo scoprire che nostro figlio soffrisse di una malattia incurabile ma non avevamo la forza di parlarne.

Sfortunatamente questi dubbi erano alimentati da dei fatti piuttosto tristi, la sorella di mia moglie Simonetta aveva avuto anche lei due gemelli, uno dei quali era deceduto dopo pochi giorni dalla nascita e l’altro che era sopravvissuto aveva gravissimi problemi neurologici, per questo la nostra preoccupazione era cosi grande.

Non sapevamo cosa fare, a quei tempi internet da noi non era ancora conosciuto, le ricerche di informazioni si facevano chiedendo a conoscenti che ti consigliavano secondo le loro esperienze; ricordo che grazie ad un radio amatore W0 CRT chiedemmo via radio a tutta l’Italia radiantistica informazioni su questa malattia indicando cosa accadeva a mio figlio. Arrivammo a chiedere informazioni su questa malattia del sonno, cosi la chiamavamo, persino alla RASI, un’associazione di medici radioamatori, ma ancora una volta nessuna risposta.

Questo vuoto di notizie ci faceva sentire ancora più tristi: com’era possibile che soltanto nostro figlio soffrisse di questa malattia? eppure era per noi evidente che fosse proprio cosi, perché nessuno sapeva o conosceva questo problema.

Questa fu la molla che mise in moto la nostra ricerca, iniziammo a contattare le cliniche più rinomate per avere la possibilità di far visitare nostro figlio e vedere se riuscivamo a venire a capo della situazione. Non era difficile farsi ricevere dai primari, la strada oramai la conoscevamo: si iniziava con visita privata presso il relativo ambulatorio, come sempre senza fattura, e poi si arrivava in clinica.

E così ci rivolgemmo a tutti gli ospedali della Toscana, in Lombardia, Veneto, e sempre la stessa cosa, lo stesso percorso, le stesse spese, e la solita risposta che non era mai chiara, nessuno dei baroni aveva il coraggio di dirci che non aveva idea di cosa avesse nostro figlio, ognuno di loro ipotizzava una malattia diversa e quindi analisi di nuovo e medicine per questo o quel problema, così, quasi a caso.

In tutto questo marasma di diagnosi errate devo ricordare per onestà, non a caso di lui ricordo il nome, il dottor Campagnaro di Mestre, Iridologo, col quale presi contatto telefonicamente, su suggerimento di un mio collega, spiegandogli quale fosse il problema. Senza tante cerimonie, mi fece subito presente che la cosa non era per lui di facile soluzione, ma accettò di visitare mio figlio.

Ci recammo a Mestre il giorno prima della visita, pernottando in un albergo nelle vicinanze, Patrizio era sereno, durante il viaggio dormì di continuo ed all’arrivo, alla vista del ristorante, gli si illuminò il viso.

Il mattino dopo ci alzammo di buon’ora, per essere in clinica alle otto e trenta come pattuito; la struttura era simpatica, non sembrava una clinica, l’ingresso era circondato da orti ben curati e vi erano tante persone anche anziane che li lavoravano con entusiasmo, solo in un secondo momento venni a sapere che “gli ortolani” in realtà fossero i degenti.

Di lì a poco si presentò il dott. Campagnaro che, stringendomi la mano, mi chiese di salutare Massarin, il mio collega che mi aveva indirizzato da lui, e poi aggiunse “vediamo cosa possiamo fare per questo ragazzo” e sparì con Patrizio in una stanza.

Eravamo entrambi timorosi di avere un’altra diagnosi fumosa e di sentire le solite parole che dicevano tutto e nulla ma facevano sembrare molto dotto chi le pronunciava; passarono due ore che a noi sembrarono un’eternità, poi vedemmo ritornare il dottore con Patrizio, ma il suo volto non era sereno, ci chiese di entrare nel suo ufficio e facendoci accomodare sentimmo con stupore le sue parole: “Signor Ceretelli ho visitato Patrizio con molta attenzione, ma non riesco a capire cosa possa provocare questa sonnolenza patologica a vostro figlio, mi spiace”.

Nonostante la triste notizia che ci riportava da capo, l’avrei abbracciato per la sua onestà intellettuale e per aver chiamato mio figlio per nome e non con il solito appellativo “Il Paziente”.

Poi aggiunse che nella visita aveva potuto costatare che Patrizio aveva il fegato un po’ intossicato e iniziò a descrivermi l’iride di mio figlio per farmi capire come aveva fatto a vedere il problema e continuò la sua spiegazione, dicendomi che vedeva un problema a livello del cervello che era causa del sonno, ma non sapeva cosa fare. Facendo un riferimento un po’ stravagante, per spiegare il problema disse: “è come se ad una motrice ad un tratto si staccasse il rimorchio e quindi ecco arrivare il sonno, ma sfortunatamente non so il perché” e continuò dicendo che poteva soltanto aiutarlo a smaltire tutte le sostanze tossiche accumulate con tutti quei farmaci che erano stati prescritti e che riteneva non servissero a niente.

Le sorprese non erano ancora terminate, alla fine della visita chiesi quanto dovevo per il suo disturbo, mi ero preparato per un altro salasso come d’abitudine, ma con mia grande sorpresa il dottore prese il blocco delle fatture e iniziando a scrivere mi disse “trentamila lire tutto compreso”.

Nel congedarsi da noi, ci fece presente il suo dispiacere di non esserci stato d’aiuto, ma nel frattempo ci spronò a continuare nella ricerca di qualcuno che potesse darci una risposta, invitandoci in modo garbato a non farci abbindolare dai ciarlatani.

Nonostante tutto eravamo felici, non sapevamo cosa avesse Patrizio ma ci sentivamo di nuovo persone e non soltanto un caso clinico su cui fare soldi, e con rinnovato vigore riprendemmo la via di casa pensando già a cosa o dove potevamo andare per arrivare alla soluzione.

La cura del Dott. Campagnaro per Patrizio la ricordo ancora con angoscia: il dottore usava la medicina alternativa e per cercare d’aiutare Patrizio a purificare l’organismo, gli prescrisse una dieta vegetariana con molta roba cruda, prodotti omeopatici, dei quali ricordo le prugne e il succo di Umeboshi. Patrizio doveva mangiare tutte le mattine, prima di colazione, una prugna o parte di essa, era abbastanza sgradevole di sapore essendo molto salata, il succo che sostituiva l’aceto nelle insalate, invece, era più gradevole.

Tute le sere, inoltre, doveva coricarsi con un cataplasma d’argilla sulla pancia da tenere tutta la notte, questo per un mese intero.

Fu allora che decisi di diventare vegetariano, per provare se era possibile far sostenere questa dieta a nostro figlio; successe il finimondo!

Io stavo bene, la pelle era di miglior aspetto, anche il mio fegato ne traeva giovamento, ma tutti i miei amici, conoscenti e colleghi di lavoro, ai quali non avevo spiegato il motivo della mia scelta, s’interrogavano sul perché del mio cambiamento e mi chiedevano tutti se mi fossi convertito a qualche nuova religione! La cosa mi faceva abbastanza sorridere ma non avevo voglia di rivelare il perché della mia scelta, che poi convinse tanto da farmi continuare per diversi anni.

Patrizio iniziò la cura con qualche riluttanza, ma la nostra insistenza ebbe il sopravvento e devo dire che la affrontò stoicamente per tutto il mese come prescritto dal dott. Campagnaro.

Come ci aveva detto il dottore, la cura portò dei miglioramenti nelle funzioni epatiche di Patrizio, le analisi del sangue dopo la cura erano perfette, Patrizio era in piena salute e nessun medico avrebbe creduto che le cose in realtà non stessero così, la sonnolenza infatti era sempre presente nello steso modo.

Nel frattempo i mesi passavano, non riuscivamo a trovare nessuna soluzione, le visite si succedevano quasi con cadenza regolare, i viaggi della speranza si moltiplicavano, ma la soluzione al problema non arrivava. Ci preoccupava anche il dover lasciare così spesso Tiziano con i nonni, gli spiegavamo il perché di tutti quei viaggi e lui, nonostante la giovane età, ci dimostrava di aver capito e sentivamo allora di avere la sua approvazione per tutti qui tentativi che facevamo, eppure ancora oggi, a distanza di tanti anni, abbiamo il dubbio che la nostra forsennata ricerca di una diagnosi ci abbia fatto essere meno presenti con lui.

Oggi mi viene da pensare a quanto può aver sofferto anche Tiziano per questo problema, i gemelli sono molto vicini fra loro ed è possibile che tutto questo sia stato un grosso disagio anche per lui, un disagio che noi non abbiamo valutato in modo corretto.

Mi viene da pensare che il lungo periodo di mancanza di una diagnosi a Patrizio possa aver comportato traumi in tutti noi ed ogni tanto, nei momenti più tristi della nostra esistenza, i sensi di colpa che ci porteremo addosso per tutta la vita si ripresentano, procurandoci lo stesso disagio di allora.

Nonostante tutti questi problemi sia Patrizio che Tiziano a scuola andavano abbastanza bene, la nostra fortuna è stata quella di trovare dei docenti che, pur non sapendo cosa avesse Patrizio, hanno capito la nostra sofferenza e hanno fatto di tutto per poterci aiutare.

Visto che la medicina tradizionale non ci dava soluzioni, cominciammo a guardarci attorno per capire se vi erano altre possibilità e, come di consueto in questi casi in cui ci si affida più alle conoscenze che alla scienza, appena sentivamo parlare di un medico che aveva fatto miracoli per una persona ci precipitavamo da lui con tanta speranza e come sempre ci ritrovavamo con un pugno di mosche e molta più confusione dentro di noi.

Questa era una spirale che ci avvolgeva sempre più, in questi casi non ti rendi nemmeno conto di quante visite deve sopportare tuo figlio, sei sempre disposto a partire per un nuovo viaggio della speranza che ti porta da una città all’altra, da una regione all’altra, dove erano diagnosticate le più stravaganti patologie e relative cure, che pero sortivano sempre lo stesso risultato, non cambiava niente e Patrizio continuava a dormire.

Fummo anche indirizzati da un riflessologo di Firenze, qui si giocava in casa vi erano meno disagi. A detta di conoscenti era riuscito a guarire molte persone che non avevano trovato benefici dalla medicina convenzionale; così visitò anche nostro figlio e ne scaturì una nuova diagnosi con relativa terapia, fortunatamente anche questa con prodotti omeopatici, che durò circa due o tre mesi, non ricordo bene. Durante questo periodo tornammo dal riflessologo che affermava di vedere dei miglioramenti che noi non vedevamo, poiché Patrizio continuava a dormire nello stesso modo senza nessun cambiamento apprezzabile ed alla fine anche questa esperienza terminò con il solito risultato, nostro figlio continuava ad addormentarsi tutti i giorni, più volte al giorno.

Passarono così gli anni delle scuole medie inferiori; le assenze di Patrizio, dovute alle tantissime visite effettuate, ci preoccupavano per il buon andamento scolastico, ma fortunatamente riusciva ad avere buoni voti, anche se appena superiori alla sufficienza. La nostra preoccupazione era pari al nostro disagio ogni qualvolta avevamo un incontro con i docenti, ai quali continuavamo a ripetere quasi come fosse un’ossessione che non eravamo riusciti a sapere cosa avesse nostro figlio, ma che stavamo cercando di risolvere il problema.

Visti i risultati della medicina alternativa, ritornammo a quella tradizionale, sempre con la speranza che a forza di provare nuove soluzioni, prima, o poi, saremmo riusciti ad assegnare un nome e una cura alla malattia di nostro figlio, ma ancora non era il tempo e le sorprese sgradevoli non erano terminate.

Dopo l’ennesima visita neurologica, al medico di turno venne il dubbio che Patrizio avesse problemi psicologici e che il suo dormire fosse il frutto di disagi nascosti e di altro che non ricordo bene, fummo allora indirizzati da uno psicologo per la visita, tutto ciò mi sembrava assurdo, anche se in passato erano già state prospettate queste ipotesi, prima con Tiziano che dicevano si succhiasse il dito perché non accettato, adesso Patrizio perché dormiva.

Nessuno prendeva mai in considerazione il fatto che fossero gemelli.

Ricordo ancora che quando ci dissero che erano due per noi fu una festa, erano due anni che cercavamo d’avere un figlio e finalmente ne arrivavano addirittura due! Senza mai pensare a quanto scompiglio avrebbero portato due bimbi in una famiglia dove eravamo già in quattro con Simonetta unica donna, eravamo al settimo cielo.

Iniziarono così a parlarci di terapia familiare, a spiegarci cosa prevedevano di fare, come dovevamo comportarci… la cosa non mi convinceva, sapevo che non potevamo essere dei genitori perfetti, chi lo è?

Ero convinto di non aver creato problemi psicologici ai miei figli, forse la mia era soltanto un po’ di presunzione, e parlando con mia moglie Simonetta le dissi che, prima di accettare tutto ciò, avrei fatto una piccola indagine personale, per capire una materia cosi sconosciuta per la mia cultura.

Il mio lavoro in Telecom mi portava a conoscere molte persone ed ero convinto che alla fine sarei riuscito a trovare la persona giusta cui chiedere le informazioni che mi servivano.

Fortunatamente, proprio in quel periodo, vidi in ufficio che saremmo dovuti andare ad istallare delle nuove linee telefoniche presso lo studio di un noto psicologo pratese, la cosa si fece interessante e chiesi all’assistente ai lavori, che conosceva il mio problema, di poter andare anch’io su quel lavoro. Francesco, Checco per gli amici, accettò e mise in appuntamento il lavoro abbinandolo anche al mio nome, assegnandocelo per il giorno seguente.

Non stavo più nella pelle, appena tornato a casa, ne parlai con mia moglie, ero talmente agitato che la notte non riuscii a riposare in modo tranquillo, pensavo a come poter iniziare il discorso con lui, senza fargli capire che stavo sondando la sua specializzazione, non avrei voluto creare problemi nel mio lavoro né tantomeno al collega che era con me, ma non potevo non sfruttare quell’occasione che mi si presentava per capire o dare risposta ai miei dubbi.

Il mattino seguente, come da appuntamento, alle nove ero già davanti alla sua porta, suonammo e ci venne ad aprire un signore ben vestito e curato, che ci accolse con un gran sorriso, questo ci mise subito a nostro agio, fu così che, iniziando a spiegare il lavoro che avremmo fatto, buttai il discorso sullo scherzo, facendo presente al dottore che molti di noi in Telecom avrebbero avuto bisogno delle sue cure, in particolare molti dirigenti che si credevano indispensabili.

Era una persona molto disponibile al dialogo, quindi involontariamente agevolò il mio intento e fu così che, mentre parlavamo delle nuove tecnologie, cominciai a chiedere informazioni sul suo lavoro, dicendo che doveva essere interessante ma anche complicato, poi con un po’ di vergogna, ma non potevo evitarlo, gli chiesi direttamente se potevo fare una domanda inerente la sua professione. Il dottore mi guardo stupito, ma accettò di buon grado di sentire cosa avessi da esporre; in poche parole parlai del problema di Patrizio, feci presente che si addormentava ovunque, che avevamo fatto centinaia di tentativi e che nessuno aveva trovato soluzione al problema, infine arrivai al punto e gli dissi che l’ultima visita fatta a mio figlio aveva fatto pensare alla possibilità che vi fossero dei problemi psicologici che inducevano Patrizio a dormire e che ci avevano consigliato di fare terapia familiare e cosa ne pensasse.

Aspettavo di essere mandato a quel paese, invece il dottore iniziò a farmi delle domande, chiedendomi se ero una persona attiva, se facevo molto sport, in poche parole volle sapere se ero un tipo tranquillo o uno che una ne fa e mille ne pensa, poi iniziò una spiegazione che riuscivo a malapena a seguire: parlò di conscio, inconscio… ma l’epilogo lo ricordo eccome, le parole che conclusero tutto quel bel discorso farcito di vocaboli eruditi furono: “essendo lei un iperattivo è possibile che suo figlio per compensare la sua iperattività dorma”.

Ero veramente sbalordito, già mi assillava il dubbio di non essere stato un buon padre, pensai che la colpa di tutto fosse dovuta soltanto a me e alla mia maledetta iperattività, che io nella mia ignoranza consideravo voglia di fare, mai avrei pensato che il mio lavorare molto potesse far del male alle persone vicine e soprattutto ai miei figli.

Tornai a casa più arrabbiato che mai, non mi tornavano i discorsi che mi erano stati fatti e mi ripetevo “vuoi vedere che proprio perché ti senti colpito in prima persona, il problema è proprio quello”.

Passarono giorni in cui pensai molto a quanto mi era stato detto, ma dentro di me, c’era una voce che mi diceva di non ascoltare, di continuare la ricerca.

Mi venne in mente che fra tutte le persone conosciute tramite il mio lavoro, vi era un’assistente sociale del consultorio comunale di Prato; la mattina seguente andai a trovarla e le spiegai il problema chiedendole gentilmente se conosceva uno psicologo al quale mi sarei potuto rivolgere per avere delle risposte in merito. Le chiesi, senza mezzi termini, di indicarmi una persona di cui lei si sarebbe fidata, non m’interessava il nome, né tantomeno gli attestati di merito, cercavo una persona seria che mi avrebbe dichiarato tutta la verità, anche la più brutta. Fortunatamente capì la mia situazione e, dicendomi che non dovevo giudicare dall’aspetto il medico dal quale mi inviava, prese il telefono e chiamò il consultorio di Peretola dove mi fissò un appuntamento.

Finalmente giunse il giorno della visita e ci recammo io, mia moglie Simonetta e Patrizio presso il consultorio di Peretola; arrivammo come sempre in orario visto la mia mania della puntualità e dovemmo aspettare che la visita in corso terminasse, poi finalmente la porta si aprì ed una voce possente chiamò “ Ceretelli!”

Entrammo e ci trovammo davanti ad un uomo di corporatura robusta, fra le labbra un mezzo toscano, aveva una chioma di capelli ricci che ricordavano il cantautore Angelo Branduardi e guardandoci diritti negli occhi ci chiese di accomodarci, prese dei fogli, una penna, sistemò un po’ di cose sulla scrivania e rivolgendosi a me disse: “lei è mai stato in carcere?”, “no!” risposi subito sorpreso, il dottore continuò: “ha amanti?” ed io di nuovo “no”; le stesse domande le rivolse a mia moglie che dette le stesse risposte, al che, alzando lo sguardo su di noi, ci guardò come per chiederci che cosa ci facessimo da lui, poi, pensando ad alta voce, disse: “ah voi siete quelli del ragazzo che dorme, è lui?”

Annuimmo ed allora ci chiese perché eravamo andati da lui, gli spiegammo che ci avevano prospettato che Patrizio dormisse a causa di problemi di natura psicologica e per questo ci era stato indicata la necessità di fare terapia familiare.

Feci presente che ne avevo parlato con Sandra la quale ci aveva consigliato di sentire un suo parere, questo gli fece piacere ed alzandosi, invitò me e Simonetta ad andare a prenderci un caffè e ci disse di tornare lì dopo un’ora circa che poi ci avrebbe detto tutto.

Uscimmo con un po’ di preoccupazione, ma dovevamo lasciare Patrizio libero di parlare senza la nostra presenza, decidemmo allora di fare due passi per tradire l’attesa. Il tempo sembrava fermo, le lancette dell’orologio non camminavano, sembrava che tutto attorno a noi andasse a rilento, passeggiavamo su e giù come due citrulli, sono convinto che le persone che ci vedevano camminare attorno all’ambulatorio pensassero che eravamo un po’ fuori di testa. Eravamo preoccupati dal fatto che non sapevamo se fosse meglio una conferma della diagnosi, o il sentirci di nuovo dire che avremmo dovuto continuare a cercare altrove, ma dove?

Finalmente l’ora trascorse ed in gran fretta tornammo al consultorio, la porta era ancora chiusa e allora ci sedemmo ad aspettare nella saletta adiacente, consultando di nuovo tutte quelle riviste datate che ci sono in questi ambulatori.

Finalmente la porta si aprì e la solita voce piena chiamò “Signori Ceretelli”.

Ci affrettammo a entrare, il dottore chiuse la porta, ci guardò con un sorriso di soddisfazione ed iniziò: “Non so cosa faccia dormire vostro figlio, ma le posso certificare che problemi psicologici che lo affliggono non ce ne sono”, ed aggiunse: “oggi molti miei colleghi attribuiscono tutto alla psicologia: tristezza, problemi esistenziali, riso, incoscienza”, e, sorvolando sui paragoni un po’ più scurrili che fece, infine ci disse: “vostro figlio Patrizio non ha problemi di carattere psicologico, ritengo che la terapia familiare sarebbe dannosa per lui e per voi, non cominciate a dirgli che non è normale, se continuate per molto tempo va a finire che ci credete lui e voi, cercate altre soluzioni” e ci congedò.

Ci ritrovammo punto e a capo; gli anni passavano ma la soluzione al problema si allontanava sempre di più, oramai scoraggiati, cominciammo a pensare che non saremmo mai riusciti a sapere cosa avesse Patrizio.

I nostri pensieri correvano al futuro, con Simonetta cercavamo di capire come sarebbe stata la sua vita, come avrebbe affrontato il futuro, la scuola, il lavoro e tutto quello che avrebbe comportato il vivere con una situazione paradossale come la sua.

Lo smarrimento era totale, ma la voglia di capire era più forte di tutte le avversità; Patrizio era molto stanco di visite, terapie e tutto il resto, decidemmo di comune accordo di fare una pausa per farlo rilassare, nel frattempo avremmo cercato nuove opportunità per ricominciare la ricerca della soluzione definitiva.

Avevamo percorso molte strade e non sapevamo più in che direzione andare, restava soltanto un miracolo ma pur essendo cresciuto in ambito cattolico ho forti dubbi sui miracoli e non riuscivo a concepire che Dio potesse guarire proprio mio figlio e dimenticarsi di altri ragazzi giovanissimi colpiti da tumori, leucemie ed altre malattie che non lasciano speranze.

Pur non conoscendo la malattia di mio figlio, intuivo che non avrebbe avuto esiti funesti, quindi ripartii di nuovo in cerca di risposte da altre branche della medicina.

Ci rivolgemmo di nuovo al dipartimento di neurologia di Careggi, mi informarono di un centro neurologico molto efficiente a Milano, cercai subito il numero telefonico per prenotare una visita, l’appuntamento attraverso il SSN era legato alla lista d’attesa che fortunatamente non era esagerata, si trattava d’attendere soltanto una quarantina di giorni che sfruttammo per dare di nuovo un po’ di riposo a Patrizio e tenerlo lontano da terapie che non davano risultati e dai camici bianchi che in quel periodo non gli erano particolarmente simpatici.

Lo lasciavamo dormire più del dovuto, svegliandolo per fare i compiti e studiare un po’, ma era un problema, quando si metteva a studiare, dopo le prime righe di lettura la testa andava a sbattere su tavolo e ogni volta che si svegliava doveva ricominciare da capo perché non ricordava fin dove o quanto aveva appena letto.

Non trovo le parole giuste per spiegare il dolore che si prova in quei momenti, mi sentivo sempre di più una persona inutile, non riuscivo ad aiutare mio figlio e forse stavo trascurando anche Tiziano essendo sempre preso dalla ricerca di una soluzione al problema di Patrizio, una soluzione che non arrivava mai. Questo stato d’angoscia si ripercuoteva anche sul lavoro, non sono mai stato una persona molto diplomatica, ho sempre detto quello che penso pagandone le conseguenze, ma sempre rispettando le persone, invece in quel periodo mi bastava poco per esplodere con chiunque mi facesse spazientire.

Anche fra ma e Simonetta, pur volendoci un mondo di bene, bastava poco per litigare, eravamo stanchi di tutta quella situazione e nessuno sapeva darci un aiuto o confortarci con parole di speranza, i silenzi di amici e conoscenti erano come coltelli piantati nelle nostre carni che si facevano sentire ogni qualvolta ci veniva posta la solita domanda “Allora avete scoperto cos’ha Patrizio?”

Arrivò il giorno della visita a Milano, non ricordo il perché ma decidemmo di fare il viaggio in macchina e tornare la sera stessa, forse per non lasciare ancore una volta Tiziano da solo alcuni giorni; pensammo che per Patrizio non sarebbe stato un gran sacrificio, lui per tutto il viaggio avrebbe come di consuetudine dormito, si sarebbe svegliato soltanto all’arrivo per poi riaddormentarsi appena ripartiti e svegliarsi a Firenze e cosi fu.

Partimmo la mattina presto che ancora era buio, non ricordo che mese fosse ma la temperatura pur essendo ancora notte era gradevole, alle prime luci dell’alba ci fermammo per una piccola colazione, Milano non era lontana, come sempre arrivammo in perfetto orario per la visita, la struttura era ben tenuta, tutto faceva presupporre che questa volta forse potevamo attenderci dei risultati.

Aspettammo il nostro turno facendo conoscenza con altre persone che come noi erano in pellegrinaggio, e apprendemmo da chi già frequentava la struttura che si erano trovati bene e che alcuni di loro avevano trovato soluzione al problema, anche se lamentavano il grosso disagio di dover venire più volte l’anno a Milano, dalle più disparate località del Mezzogiorno.

Fu il nostro turno, entrammo, un’equipe di quattro medici di cui tre molto giovani ci accolse, ci posero le domande di rito e noi come al solito spiegammo quale era il problema: che Patrizio si addormentava di continuo, che tutto era iniziato di colpo, che non c’erano stati preavvisi, che il giorno prima stava bene e il giorno seguente aveva iniziato ad addormentarsi ovunque, ecc…I medici si consultarono e ci chiesero di consegnare loro gli esami che ci avevano richiesto di fare.

Si ritirarono un po’ in disparte a consultare quanto avevamo portato, poi discussero fra loro a bassa voce, poi tornarono presentando a Patrizio un libretto con delle pagine sulle quali vi erano delle macchie d’inchiostro, almeno cosi sembrava a noi, chiedendogli di dire cosa vedeva in quelle figure. Erano circa le dodici e Patrizio in quell’orario aveva forti attacchi di sonno, si sforzò di rispondere alle prime cinque o sei pagine, poi il sonno si fece sempre più forte e cominciò a dare risposte secondo me a caso pur di sbrigarsi ed essere lasciato dormire in pace.

Ci fecero accomodare fuori dalla stanza, dicendoci di attendere, che sarebbe arrivato il primario e ci avrebbero richiamati per la risposta. Passarono circa due ore, nelle quali Patrizio ciondolava sulla panca della sala d’attesa, non voleva stare sdraiato nè appoggiato a noi, sentivamo gli sguardi dei presenti che trafiggevano i nostri corpi come spade di fuoco, alcuni di loro più sensibili al nostro disagio, si avvicinarono gentilmente, chiedendoci cosa avesse nostro figlio, ancora oggi non capisco il perché mi affrettassi a spiegare che non faceva uso di stupefacenti, forse era dovuto al fatto che non era più un bambino e volevo allontanare da lui ogni pregiudizio, poi però dovevo terminare sempre nello stesso modo: “non sappiamo cos’ha nostro figlio”.

Non so spiegare quanto male abbia fatto questa situazione a me ed a mia moglie, forse se avessimo avuto una diagnosi in tempi brevi avremmo potuto essere anche dei genitori migliori, ma questo non ci è dato saperlo.

Finalmente ci chiamarono, appena entrati, ormai esperti nel giudicare i volti e le espressioni dei medici, ci accorgemmo che anche loro brancolavano nel buio. Ci venne spiegato che le risposte che aveva dato patrizio alle “macchie” cosi le chiamo io, facevano emergere che ci poteva essere una componente psicologica a determinare il problema, ma ritenevano anche che quella macchiolina bianca che si vedeva nella tac fosse da tener d’occhio e ci consigliarono di ripeterla in altro modo, dato che non era necessario tornare a Milano a farla, potevamo farla a Firenze per poi spedirla a loro.

Ci fecero la richiesta per una nuova tac e ci congedarono senza aggiungere altro.

Tornammo alla macchina e durante il viaggio mentre Patrizio, come al solito, dormiva, parlammo liberamente fra noi e concludemmo che si era trattato dell’ennesimo fallimento, e via in silenzio verso casa.

Cercavo di stare attento ala guida ma mille pensieri si accavallavano nella mia mente e mi resi conto di non essere in grado di continuare a guidare, ero distratto e non mi accorgevo di chi era intorno a me in autostrada, alcuni mi suonavano e allora cercando di mascherare il mio disagio dissi a Simonetta “ci vorrebbe un buon caffè”. Mia moglie sa che sono un caffeinomane e non fece caso alla mia voce che tradiva la difficoltà che volevo mascherare, appena vidi il cartello di un’area di servizio mi fermai, scesi dalla macchina e con la scusa di andare in bagno mi allontanai.

Ero molto deluso, “che padre sono” pensavo “non riesco a trovare una soluzione al problema di mio figlio che continuo a scarrozzare di regione in regione come un pacco postale senza risultato”, avrei avuto bisogno di sfogarmi, non so magari litigare con qualcuno per far venir fuori tutta la rabbia che avevo in corpo.

Arrivato in bagno, sentii il bisogno di mettere la testa sotto il rubinetto dell’acqua fresca per provare a calmarmi, la scusa c’era, faceva abbastanza caldo e anche se avessi preso di bischero da mia moglie magari avrei smorzato un po’ la rabbia.

Come pensavo, arrivato alla macchina Simonetta mi domandò cosa avessi fatto, ed io senza batter ciglio: “avevo caldo ho messo la testa sotto l’acqua fresca”. Vedo ancora mia moglie che scuote la testa come per dire cosa volete farci, è cosi.

Ripartimmo e dopo pochi chilometri cominciammo a parlare di cosa avremmo potuto fare, se fosse opportuno ripetere la tac, avevamo il timore che potesse essere dannoso farla tante volte, e, visto che le indicazioni dei medici di Milano ci avrebbero portato di nuovo su una strada che avevamo abbandonato, ritenendola sbagliata, ci chiedevamo se non sarebbe stato meglio cercare nuove frontiere.

Tornati a Firenze, trascorremmo alcuni giorni senza parlare del problema, non per dimenticarcelo, ma per vedere se, vivendo per un periodo come se nulla fosse, potesse scattare nella nostra testa un qualcosa che ci avebbre indicato la strada giusta, ma fu tutto inutile.

La situazione era sempre la stessa, non sapevamo cosa fare, a dirlo cosi sembra facile, ma la notte non dormivamo, il giorno lo passavamo sempre a cercare qualcosa o qualcuno che ci potesse dare informazioni, indirizzarci da qualcuno, nella speranza di trovare la persona giusta che però non arrivava mai.

In una situazione così c’è da perdere la testa, ti chiedi perché ti debba accadere tutto ciò, ma il perchè non c’era o forse non lo sapevamo trovare, e questa era l’unica risposta che mi dava sollievo e mi spingeva a continuare nella ricerca.

Così in un continuo di visite e delusione trascorsero tre anni da quel maledetto soggiorno estivo, Patrizio e Tiziano avevano finito la scuola media inferiore, li aspettava la scelta delle scuole superiori, Tiziano decise di studiare Agraria, ne eravamo felici, meglio un buon contadino che un cattivo medico, questo pensavamo allora e anche oggi siamo della stessa opinione. Patrizio invece era indeciso fra l’Istituto d’arte o il Liceo artistico, anche questa scelta ci convinceva, pensavamo che tutti gli artisti sono un po’ strani e che magari in quella scuola non avrebbero fatto tanto caso al suo problema. Ne discutemmo e poi le decisioni furono prese: Tiziano avrebbe frequentato l’Istituto agrario e Patrizio il Liceo artistico.

Vi era soltanto il solito pensiero all’inizio della scuola, dovevamo informare il preside e tutti i docenti del problema di nostro figlio, dovendo dire anche a loro che ancora dopo tanti anni non eravamo stati capaci di trovare una soluzione al problema.

Avevamo la sensazione che soltanto Patrizio avesse questa malattia, trovavamo traccia di casi simili, quando si parlava con persone molto anziane che ricordavano la zia lontana o la cugina che si addormentava durante il giorno, continuando a parlare si scopriva poi che, alle persone in questione, questo era accaduto quando avevano raggiunto una veneranda età.

Quando sei in una situazione dove tutto è contro di te, non hai nulla da perdere e sei stremato dalle delusioni, diventi preda di tutte le più assurde credenze: le persone che ci conoscevano e anche alcuni familiari cominciarono a metterci il tarlo nella testa: “sai? Il figlio del tale è andato a Lourdes ed è tornato guarito”, “la zia di un mio collega è stata da padre Pio e ha avuto la grazia”, “un mio amico è stato da un prete ed è guarito”.. ma quando domandavi da cosa erano guariti le risposte erano molto vaghe: soffriva di nervi, così si dice in Toscana per dire che uno è un po’ matto, oppure nessun dottore era riuscito a capire il problema o ancora che il tale gli aveva dato una benedizione ed era tutto sparito.

Queste cose mi facevano e mi fanno arrabbiare ancora, ho già spiegato in precedenza il mio pensiero e non voglio tornarci sopra, però, dai oggi, picchia domani, alla fine mi sentivo un verme, “..cosa ti costa provare” mi dicevano, “male che vada resta tutto uguale”, io ribattevo che ero stato da dei medici che avrebbero dovuto conoscere le malattie e tutto era stato inutile, per quale motivo avrei dovuto affidarmi a qualcuno che diceva di guarire in nome o per conto di altri sopra di lui? Sarebbe stato utile allora rivolgersi direttamente al Supremo e ritornava il solito discorso: perché avrebbe dovuto aiutare proprio mio figlio e gli altri no?

Con questi pensieri iniziò il nuovo anno scolastico, iscrivemmo Tiziano ad Agraria e Patrizio al Liceo artistico; ci preoccupammo di avere da subito un incontro con la preside che se non erro era la signora Coco, sembrava un po’ sorpresa e incuriosita della nostra richiesta, incontrarla prima che iniziassero le lezioni, ma ci dette appuntamento un paio di giorni prima dell’inizio della scuola. Come al solito nei giorni prima dell’incontro, con mia moglie ci chiedevamo come avremmo informato la signora, cercando le parole più giuste a spiegare il problema, ma restava sempre l’ostacolo più evidente, quello di dover ammettere che ancora non sapevamo il perché si addormentasse e che malattia avesse Patrizio.

Arrivò il giorno dell’appuntamento, fummo ricevuti nel suo ufficio all’ingresso dell’istituto e, appena seduti, cominciai a spiegare il nostro problema; la signora ascoltò con attenzione e quando ebbi finito mi chiese se volevo certificare mio figlio e se c’era bisogno di richiedere l’insegnante di sostegno. Le feci presente che, anche se avessi voluto certificare Patrizio, non mi sarebbe stato possibile, perché non sapevo che malattia avesse e quindi nessun medico avrebbe fatto una certificazione falsa o così almeno credevo. Le chiesi gentilmente d’informare i docenti, facendo loro presente che durante le lezioni mio figlio poteva addormentarsi e che tutto ciò era dovuto a una malattia che ancora non avevamo identificato, che non faceva tardi la sera, che non era un svogliato e, cosa molto importante, non faceva uso di nessun tipo di stupefacente. Per concludere le dissi che con i compagni di scuola avrebbe deciso lui, se, come e quando informarli.

Mi aspettavo una reazione negativa invece trovammo molta comprensione, la preside ci rassicurò sul fatto che avrebbe informato i docenti e chiese di essere informata, qualora fossimo arrivati a una soluzione.

I giorni, le settimane i mesi si succedevano ma la situazione non cambiava, altre visite, altre presunte diagnosi, ma tutto restava immutato, intanto continuavano le sollecitazioni da parte di parenti e amici a intraprendere la strada della guarigione miracolosa.

Ebbi con Simonetta lunghe e accese discussioni, continuavo a ripetere che non credevo a quei signori che riescono a guarire tutti, ma quando si ammalano loro trovano la scusa che il loro dono non gli consente di operare su se stessi o sui loro cari, anche perchè questa pratica non gli porterebbe nessun vantaggio nè di salute nè economico.

Quello che vado adesso a ricordare lo faccio con un po’ di vergogna ma penso che sia utile a chi un domani dovesse leggere queste pagine, per non cadere nella rete di questi ciarlatani che si inventano poteri sovrumani.

L’insistenza di mia moglie Simonetta e di alcuni amici e parenti mi fece decidere di accettare un incontro con un prete considerato guaritore, oltretutto era abbastanza vicino, abitava in località Vaglia, appena sopra Pratolino di Firenze. I miei dubbi erano sempre gli stessi: non credevo e nemmeno pensavo che avremmo risolto qualcosa, ma come facevo a dire a una mamma che già da diversi anni soffre per suo figlio che non volevo provare, che lo ritenevo assurdo… così per portare serenità nel rapporto coniugale, accettai di andare da quel prete.

Quello che sto per raccontare non è fantasia, è avvenuto veramente, anche se non so spiegarmelo e quindi non posso spiegarlo nemmeno a voi. Fissammo un appuntamento telefonicamente e ci fu fornito l’indirizzo e l’orario in cui dovevamo presentarci.

Il giorno fatidico arrivammo a Vaglia e iniziammo a cercare la casa che credevamo fosse nei pressi della chiesa di fronte a noi; scendemmo ma non si vedeva anima viva, sembrava tutto abbandonato, in quel momento si affacciò una vicina che ci chiese, con un tono di voce come per dire “eccone altri tre che vanno a farsi fregare”, se cercassimo il prete. Ci disse che non abitava lì ma in un villino più in alto, e ci salutò con garbo come per farci capire ma dove andate, poveri bischeri.

Arrivati in cima alla strada, ci guardammo attorno e con stupore notai che il villino descritto dalla signora era una bella villa con tanto di giardino sui quattro lati e, per quei tempi, dotata di tutte le più avanzate tecnologie compreso una telecamera che era puntata sull’ingresso del giardino. Suonammo, venne a aprirci una signora dall’aspetto molto viscido e sgradevole, entrammo e fummo subito portati nello studio del prete, che di lì a poco apparve in tutta la sua boria e sgradevolezza. Dopo aver decantato le sue virtù di veggente e fatto l’elenco delle guarigioni, si apprestò a visitare Patrizio con un giunco in mano; mi sentivo ridicolo, avrei voluto parlare con lui di Vangelo o di quello che il suo Maestro aveva predicato, ma sempre per non creare imbarazzo a mia moglie, stetti zitto e ascoltai con attenzione tutto quello che diceva.

Iniziò dicendo che non vedeva tumori, nemmeno malattie del sangue, c’era pero un problema, Patrizio non avrebbe potuto avere figli a causa dei globuli rossi che non ricordo se per lui erano pochi e troppo piccoli, continuò poi la visita con questo giunco tirando fuori altri discorsi come se fosse un illusionista con il cilindro in mano.

Ed ora viene la parte più interessante, che ripeto, non so spiegare: finta la visita, mi fece la lista dei medicinali che dovevamo acquistare, cose mai sentite, come la minerale Acqua di Toscana e altre cose che non sapevo dove comprare, lo feci presente e lui, senza scomporsi nemmeno un po’, disse: “le ho tutte io, le deve comprare qui da me, le faccio preparare dalla signora che è di la” e uscì per dare l’ordine.

Io e mia moglie ci guardammo in viso come per chiederci che medicinali ci avrebbe dato, e se fossero sicuri, ma mentre ci domandavamo queste cose, ecco che rientrò con un tempismo formidabile a interrompere i nostri dubbiosi discorsi ed iniziò a spiegarci come dovevamo somministrare i medicinali. Ci disse che dovevamo tornare da lui dopo un mese di trattamento, quindi ci congedò, dicendo che stava aspettando altre persone, al che io con garbo domandai cosa gli dovevo per la sua visita, come da miglior tradizione mi sentii dire: “Basta un’offerta”. In tutta fretta decisi mentalmente di dare come offerta 50 mila lire, cifra che mi sembrava più che equa, e qui accadde l’imprevisto: stavo per afferrare la banconota da cinquanta ed una voce chiara e tranquilla mi disse: “se gliene dai trenta vedrai che si arrabbia”. Mi girai verso Simonetta, chiedendole cosa avesse detto, lei mi guardò come se fossi pazzo dicendomi: “io non ho aperto bocca”, allora pensai fra me e me: “ma guarda, i miei pregiudizi su questo prete mi fanno sentire le voci, sono proprio fuori di testa”, afferrai il biglietto da cinquantamila nel portafoglio e la stessa voce mi disse di nuovo: “ti ho detto di dargliene trenta, così si arrabbia”. A questo punto senza chiedermi cosa stesse succedendo, detti ascolto alla voce e presentai al parroco le trentamila lire che rifiutò dicendo: “ne do più io al mio giardiniere quando viene a trovarmi”, ripresi le trenta e con tutto il disprezzo che potevo dimostrare, ma sempre con educazione, gli misi in mano un pezzo da cinquanta e uscimmo dal suo studio.

Fummo subito preda della perpetua, che, porgendoci il pacchetto dei medicinali ci chiese altre trecentomila lire, eravamo oramai abituati a essere dissanguati ma che a farlo fosse un prete ci fece ancora più male.

Appena fuori dal cancello alzai gli occhi al cielo e rivolgendomi direttamente a Lui dissi ad alta voce: “è uno dei tuoi e frega la gente in tuo nome, pensaci Tu!”

Tutto sbagliato, tutto da rifare, per citare una frase famosa del ciclista toscano Bartali. Sì, avevamo ancora una volta perso tempo e danaro, bisognava ricominciare tutto da capo, cosa non facile, le forze e la volontà cominciavano ad abbandonarci, ma dopo alcuni giorni di amarezza e discussioni ricominciò la ricerca per trovare una soluzione.

Come sempre accadeva, dopo l’ennesima delusione facevano una pausa di riflessione per riordinare le idee; erano passati un paio di mesi e stavamo ricominciando a guardarci attorno per capire in quale direzione dovevamo andare, le soluzioni erano veramente poche, facendo un resoconto di quanto avevamo fatto, di tutte le vie percorse, non restava altro che accettare di non riuscire a dare un nome alla malattia di Patrizio.

Preso dal racconto della forsennata ricerca della soluzione mi stavo dimenticando di ricordare che gli anni intanto passavano e per Patrizio e Tiziano era arrivata l’età del motorino, tutti i compagni di scuola ne possedevano uno, e anche loro giustamente lo volevano, ricordo le discussioni con Simonetta “cosa facciamo, siamo matti a comprare il motorino a Patrizio e se poi si addormenta alla guida?” Forse a chi non ha provato questi problemi la cosa può risultare assurda ma non è cosi.

Non sapevamo più cosa fare, le strade da percorrere erano esaurite, la nostra conoscenza non ci dava altre soluzioni e lo sgomento e l’inutilità del nostro operato ci stavano distruggendo l’esistenza.

Un giorno mentre ero a lavoro, vennero a dirmi di chiamare casa che era molto urgente, cosa che feci immediatamente e, quando mi rispose, Simonetta iniziò a parlare tutta eccitata, mi disse di aver visto per caso nella trasmissione Uno mattina un certo prof. Lugaresi di Bologna che, presentando un suo libro sul sonno, parlava delle malattie del sonno e aveva citato tutti i sintomi che Patrizio aveva, non era riuscita però a capire in che ospedale fosse. Questa notizia riaccese in noi le speranze, rientrando in ufficio chiesi al mio superiore, che era informato del mio problema, di concedermi alcune ore di permesso per potermi dedicare alla ricerca di questo professore. Lavorando in telecom non mi fu difficile chiamare a Roma la Rai per farmi dare informazioni sul prof Lugaresi, pensavo che mi avrebbero dato numero telefonico e indirizzo di dove lavorava, invece fu molto più difficile del previsto, volevano sapere il perché, il percome, se ero sicuro della trasmissione, in che data era stata trasmessa e un sacco di storie che mi fecero saltare i nervi. Riattaccai mandandoli a quel paese, questa volta potevo farcela da solo!

Chiesi la collaborazione dei colleghi del 12, allora i recapiti telefonici si chiedevano soltanto a questo numero, e mi feci dare tutti i numeri telefonici degli ospedali di Bologna, facendo un errore, perchè non avevo preso in considerazione le facoltà di medicina; nonostante tutto avevo diversi numeri da chiamare ed ero fiducioso che in giornata avrei trovato questo benedetto professore e dove svolgeva il suo lavoro.

Dovetti fare almeno sei-sette telefonate per trovare una persona che conosceva Il Professor Lugaresi, mi sembrava assurdo che un medico invitato in un trasmissione televisiva a parlare del proprio libro non fosse conosciuto nella sua città, poi finalmente una voce rispondendo mi disse: “guardi che il prof Lugaresi lavora presso la clinica di neurologia dell’università, io purtroppo non ho il numero, però lo può trovare in elenco”.

Mi fu sufficiente, chiamai di nuovo i colleghi dell’elenco abbonati e spiegando loro chi ero e di cosa avevo bisogno chiesi il loro aiuto per cercare il numero della clinica di neurologia universitaria di Bologna. Fatto, in pochi secondi il collega mi dette numero telefonico e indirizzo facendomi gli auguri.

Ero molto eccitato, finalmente potevo sperare di attribuire un nome alla maledetta malattia di mio figlio e finalmente anche una cura, feci il numero e appena ebbi risposta chiesi di poter parlare con il prof Lugaresi spiegando il problema, mi fu risposto che il professore era fuori per un congresso ma mi avrebbero passato la dottoressa Sforza che si interessava di questi problemi. Fu inoltrata la mia chiamata ad un interno e dopo diversi squilli una voce femminile moto bassa e pacata rispose: “buongiorno sono la dottoressa Sforza mi dica”, con la mia solita irruenza mi precipitai a raccontare tutto, spiegando che mio figlio erano anni che si addormentava di continuo in tutte le situazioni e per mia meraviglia sentii rispondermi “Capisco”, poi con calma iniziò a parlarmi chiedendomi quando sarei potuto andare a Bologna, io risposi “anche subito”, sentii la dottoressa ridere, poi aggiunse: “può andarle bene fra tre giorni?”, accettai e chiesi cosa dovevo portare o fare, la cosa risultò più semplice del previsto: una richiesta del medico curante per visita neurologica e le ultime analisi fatte, mi diede l’indirizzo del centro dicendomi di chiedere di lei quando sarei arrivato, mi salutò cortesemente e mi diede appuntamento da lì a tre giorni.

Chiamai subito casa e raccontai tutto a mia moglie, ero felice, forse finalmente avremmo trovato chi ci avrebbe detto cosa aveva Patrizio e ci avrebbe dato la terapia giusta per uscirne definitivamente.

I tre giorni che ci separavano dalla visita furono per noi tre giorni di euforia, assieme a mia moglie parlavamo di quello che aveva ascoltato in trasmissione e la fantasia ci portava ad immaginare le soluzioni più belle, vedevamo già Patrizio sveglio e scattante come lo era stato fino ai dieci anni, e questo ci rendeva molto felici.

Arrivò finalmente il giorno, come di consueto a causa della mia mania della puntualità e un po’ per la fretta di arrivare partimmo con largo anticipo, eravamo fiduciosi, e il viaggio questa volta fu fatto con più allegria; nonostante non conoscessi le strade di Bologna, con le indicazioni in possesso non fu poi così difficile arrivare alla clinica. Entrammo nel piazzale, parcheggiai la macchina quasi davanti all’ingresso e andai a chiedere informazioni. Ero abbastanza teso, saltai i pochi gradini dell’ingresso e giunsi in portineria, chiedendo se quella era la clinica di neurologia dove lavorava la dottoressa Sforza, ci fu indicata la strada e ci incamminammo per un corridoio, girammo a sinistra come indicato alla ricerca delle scale che ci avrebbero portato al seminterrato, trovate, le scendemmo.

Devo dire che la sensazione non era piacevole, ci ritrovammo a passare attraverso un lugubre archivio metallico pieno di cartelle, alla fine del quale giungemmo in uno slargo un po’ meglio illuminato, e, incontrando un signore in camice bianco, chiedemmo della dottoressa Sforza, e mentre questi ci indicava la stanza, dalla stessa uscì una signora non molto alta, e sorridendo ci disse: “sono la dottoressa Sforza, prego accomodatevi” facendoci entrare nel suo ufficio “un attimo e sono da voi” ed uscì con il signore che ci aveva dato informazioni.

Rimasti soli, io e Simonetta ci guardammo un po’ delusi, l’ambiente non dava fiducia ma speravamo che fosse soltanto la nostra impressione; dopo pochi attimi la dottoressa tornò, si mise a sedere di fronte a noi e ci chiese di spiegare quale era il problema. Come al solito senza aspettare che anche gli altri potessero parlare, Patrizio per primo, iniziai a raccontare tutto dal primo giorno in cui la cosa ebbe inizio fino ad arrivare a quella mattina, la dottoressa mi guardava con curiosità, forse pensava che ero io quello che aveva bisogno di cure, vista la mia agitazione, so che anche Simonetta era agitata ma la sua personalità la porta a tenersi tutto dentro io invece ho bisogno di esternare i miei sentimenti.

La dottoressa mi fece parlare, poi volle ascoltare Simonetta, e infine si rivolse a Patrizio facendogli poche domande, una in particolare che ricordo sempre come fosse quel giorno, gli chiese: “Patrizio quando ridi senti cedere le gambe o la testa ciondolare?”, Patrizio rispose di si e io subito gli dissi: “ma come non ce lo hai mai detto!” e lui mi rispose giustamente: “non me lo avete mai chiesto”, la dottoressa sorrise e riprendendo a parlare con il suo tono basso e pacato disse: “Signori Ceretelli è molto probabile che vostro figlio soffra di narcolessia, sarebbe opportuno un ricovero per verificare se effettivamente è cosi”. Ero stupito. Scusandomi con la dottoressa per l’interruzione le dissi: “sono ormai cinque anni che girovaghiamo per mezza Italia inutilmente e a lei è bastata una risposta per dare una probabile diagnosi, non è che non creda a quanto sta affermando ma mi fa rabbia che molti suoi colleghi non sappiano che esiste questa malattia”. La dottoressa sorrise dicendoci: “purtroppo è così”.

Iniziarono allora le nostre domande: volevamo sapere cosa era questa malattia, se era possibile curarla e quanto tempo ci sarebbe voluto prima di arrivare a una guarigione, la sommergemmo di domande. Lei, con la solita calma che aveva dimostrato fin dall’inizio, ci spiegò che sulla malattia non vi erano molte conoscenze, si sapeva come diagnosticarla ma le cause della sua origine erano ancora sconosciute, fece una piccola pausa, per permetterci di metabolizzare quanto ci aveva spiegato e guardandoci direttamente negli occhi aggiunse: “la narcolessia è una malattia cronica con la quale bisogna imparare a convivere perchè non esistono terapie risolutive, e Patrizio se la ricerca non riesce a trovare una soluzione dovrà conviverci per tutta la sua vita”. Questa fu una mazzata tremenda, tutti i nostri sogni si infrangevano contro una montagna insormontabile, di colpo la gioia che avevamo espresso per la diagnosi ricevuta svanì, la tristezza ci avvolse come una nebbia e la confusione più totale si fece largo nei miei pensieri. Io e Simonetta ci guardammo e dai suoi occhi capii che stava provando le mie stesse sensazioni, questo fu percepito dalla dottoressa che riprendendo a parlare disse che era prematuro preoccuparsi prima degli accertamenti strumentali, oggi capisco che lo fece soltanto per alleggerire il momento di tensione che si era creato, lei già sapeva che il risultato sarebbe stato quello, poi continuò nel suo discorso domandando a Patrizio che scuola faceva e allora iniziammo a parlare dei suoi progetti di studio distogliendo per un attimo il pensiero dalla triste notizia.

Tornando a parlare del problema narcolessia, almeno ora sapevamo come chiamare la malattia di nostro figlio, la dottoressa Sforza ci confidò che non aveva disponibilità di posti letto e quindi se volevamo fare gli accertamenti in tempi brevi, avremmo dovuto affrontare la situazione in un modo poco usuale, ci chiese se avevamo la possibilità di poter pernottare a Bologna da conoscenti, amici o prenotare un camera d’albergo andando incontro a delle spese, altrimenti avremmo dovuto attendere alcuni mesi prima che potesse ricoverare Patrizio per le analisi.

Avevamo speso già tanti soldi che non avevano portato nessun risultato, quindi con la prospettiva di arrivare a definire il problema accettammo di buon grado quella soluzione, ci fece allora presente che in via Saragozza vi erano degli alberghi che non costavano molto e che erano vicini all’istituto, questo ci avrebbe agevolato nei giorni che saremmo stati a Bologna per i controlli, ci fornì alcune date in cui potevamo tornare per permetterci di poter fissare la camera con maggiori possibilità e quindi si apprestò a salutarci dicendoci che ci saremmo risentiti telefonicamente per comunicarle una delle date che ci aveva prospettato.

Come di consuetudine questo era il momento dove chiedevo quanto dovevo per la visita, la dottoressa sorrise dicendo: “so che lei si è abituato a pagare sempre e comunque, ma io sono stipendiata dall’università e questo basta. La prossima volta che torna porti di nuovo la richiesta per visita neurologica”, ci salutò e ci accompagnò fuori dalla stanza fino a quel corridoio che passava dentro l’archivio, la salutammo di nuovo e traversando l’archivio tornammo alle scale che ci avrebbero portato fuori.

Stavamo vivendo una sensazione strana, eravamo felici per aver finalmente ricevuto una diagnosi e tristi per la notizia che ci aveva dato la dottoressa: Patrizio non sarebbe guarito.

Non so come spiegare la sensazione di smarrimento che mi attanagliava, in quel momento tutto sembrava perduto, tutte le nostre speranze erano sepolte sotto quella montagna che vedevamo davanti a noi, dovevamo reagire anche per non preoccupare troppo Patrizio, e vista l’ora – erano circa le quattordici -, dissi: “perche non pranziamo prima di ripartire, quando abbiamo fatto il giro della piazza ho notato dei ristoranti, mangiamo qualcosa tipico della cucina Bolognese e poi ripartiamo con calma”.

Ci avviammo verso piazza Saragozza, penso tutti e tre con poco appetito, arrivati sotto le logge, notammo sull’angolo la pizzeria Saragozza, ma sempre per darmi un tono dissi che non volevo mangiare la pizza e decidemmo per il ristorante dall’altra parte della strada, dove c’era un cartello che pubblicizzava la cucina Bolognese.

Anche se era abbastanza tardi come orario ci fecero accomodare e potemmo ordinare, Patrizio già ciondolava per il sonno e con una scusa andò in bagno penso per lavarsi la faccia per essere più presente.

Finito di mangiare uscimmo e ci incamminammo per via Saragozza alla ricerca dell’albergo che ci aveva indicato la dottoressa per verificare la loro disponibilità per le date che c’interessavano e dopo aver preso accordi per i giorni necessari, tonammo in clinica per comunicare alla dottoressa la data fissata.

Durante il ritorno da Bologna come di consueto Patrizio dormiva, io e mia moglie cominciammo a parlare di quanto era successo, eravamo entrambi tormentati dal pensiero che Patrizio non sarebbe guarito e ci sembrava impossibile che nonostante questa tremenda notizia una parte di noi fosse felice perché forse era finito il calvario dei pellegrinaggi preso gli ospedali.

I giorni che ci dividevano dal tornare a Bologna trascorsero con lentezza e la preoccupazione ci divorava, eravamo combattuti fra voler definire una volta per sempre cosa avesse Patrizio, perché questo significava che avremmo smesso di girovagare per gli ospedali, ma la stessa conferma della malattia era una condanna a vita per nostro figlio.

Arrivò il fatidico giorno, mia moglie Simonetta decise di restare a casa con Tiziano, io e Patrizio partimmo per Bologna. Come al solito Patrizio dormì per tutto il viaggio, io non so raccontarvi tutti i pensieri che mi giravano nella testa, ero molto preoccupato per il futuro di mio figlio, cosa avrebbe fatto nella vita… solo dormire, tutti i progetti pensati per lui,della sua vena artistica cosa ne sarebbe stato, sarebbe riuscito a concludere gli studi,si sarebbe potuto fare una famiglia, questi pensieri furono i miei compagni per tutto il viaggio. Arrivammo a Bologna in orario e appena parcheggiato ci dirigemmo verso il seminterrato che oramai avevamo imparato a conoscere, ripassammo ancora tra gli scaffali dell’archivio, il solito odore di carta vecchia e polvere ci accolse, traversammo il corridoio trattenendo il fiato, per respirare meno possibile la sua polvere e giungemmo davanti allo studio della dottoressa Sforza.

Ci attendavano due tecnici di laboratorio che iniziarono a scherzare con Patrizio dicendo che dovevano tagliargli i capelli, faccio presente che ora come allora Patrizio ha dei capelli lunghissimi, lui li guardò e serio disse: “nulla da fare, se dovete tagliarmi i capelli, non si fa niente”, risero e cominciarono a spiegarli che gli avrebbero messo degli elettrodi spostando i capelli e incollandoli alla cute con un adesivo che non sciupava i capelli e che al termine di tutto facendo uno shampoo sarebbe sparito.

Lo fecero accomodare in una stanza lì vicino e iniziarono il loro lavoro, non ricordo quanto tempo ci volle per la preparazione, però mi sono presenti tutti gli elettrodi che erano stati posizionati, molti in testa, due vicino agli occhi, due al mento, e alle gambe, scherzando gli dissi che sembrava un uomo bionico, ma la mia battuta non lo fece sorridere, anche perchè avrebbe dovuto tener tutto quell’apparato per tre giorni e non solo in ospedale ma anche fuori in albergo e ovunque fossimo andati.

Finito di montare il tutto, lo collegarono ad una macchia per fare una prima registrazione forse per veder se tutto era a posto, una volta controllato e fatta una prova di registrazione, scollegarono tutti i cavi dalla macchina della camera e li collegarono ad un registratore portatile che Patrizio avrebbe dovuto portarsi dietro, gli spiegarono che nella parte superiore c’era un pulsante nero che doveva schiacciare ogni volta che sentiva arrivare un colpo di sonno, gli sistemarono una rete sulla testa di quelle che si usano per bloccare le fasciature in modo che durante il sonno gli elettrodi non si staccassero e ci dissero di tornare il mattino seguente. Erano circa le due, chiesi a mio figlio se voleva mangiare qualcosa, ma mi chiese di andare subito in camera perche non si sentiva di andare in giro per Bologna in quelle condizioni dicendomi di andare da solo a pranzo.

Da solo non avrei potuto mandar giù niente, anche se la fame si faceva un po’ sentire visto che a causa del nervosismo della giornata avevo saltato anche la colazione, decisi di uscire un attimo, lasciai Patrizio davanti alla tv e scesi di nuovo in strada, al primo bar che trovai presi dei panini e una bottiglia d’acqua e tornai subito in camera.

Credevo che Patrizio fosse già addormentato ma evidentemente la situazione lo agitava tanto da tenerlo sveglio, mangiammo in silenzio e poi ci rimettemmo davanti alla televisione.

Dopo una decina di minuti Patrizio si addormentò, io che stavo attento a tutto quello che gli succedeva mi resi conto che non aveva premuto il pulsante come richiesto e non sapendo se facevo bene a premerlo io, lasciai perdere pensando che il giorno dopo avrei informato io la dottoressa su quanto era accaduto.

Passarono circa due ore e Patrizio si svegliò, cercai di farlo reagire ma non trovavo il sistema per farlo uscire da quella stanza, mi venne in mente che nei giorni prima venendo dal centro verso la clinica avevo intravisto un negozio di strumenti musicali dove c’erano anche delle tastiere, forse mi sono dimenticato di dire che Patrizio suonava già da diversi anni con un gruppo ed era sempre pronto quando c’era da provare o vedere nuovi strumenti.

Gli chiesi allora se voleva andare a provare la nuova tastiera della Roland che sapevo era uscita in quei giorni, la mia proposta lo convinse e calzando un cappello che mal celava tutti quei cavi si fece coraggio e uscimmo; per la strada molte persone si giravano a guardarci e io pur stando male da morire cercavo di distrarlo dagli sguardi parlando forse anche a sproposito di qualunque cosa, pur di distrarlo da tutti quegli sguardi inopportuni e continui.

Finalmente giungemmo al negozio e appena entrati si avvicinò un commesso che con molta gentilezza ci chiese se avevamo bisogno del suo aiuto, chiesi di poter provare delle tastiere e forse capendo la nostra situazione ci fece accomodare nella zona delle tastiere, accese quella che volevamo provare ed allontanandosi disse di chiamarlo se avevamo problemi.

Rimanemmo circa due ore, poi ringraziando il personale uscimmo e ci ritrovammo gli sguardi dei Bolognesi fissi su di noi ancora una volta, allora, per non tornare subito in camera, era ancora presto, decidemmo di andare al cinema per arrivare così nel modo più tranquillo possibile all’ora della cena.

Usciti dal cinema, mangiammo una cosa al volo e tornammo in albergo, saranno state le venti. Ci preparammo per la notte e Patrizio si mise davanti al televisore mentre io chiamavo casa per informarli su come avevamo trascorso la giornata.

Dopo circa un’ora Patrizio già dormiva, spensi il televisore e cercai di prendere sonno, mi era impossibile, nel buio delle stanza rivivevo tutti gli anni trascorsi nelle speranza di sapere cosa fosse a far dormire mio figlio, ora dopo cinque lunghissimi e faticosi anni, si ne erano già passati cinque, potevo sapere la verità e questo mi spaventava da morire.

Le ore non passavano, non riuscivo a prender sonno, appena chiudevo gli occhi, era come se si accendesse un proiettore e rivedevo tutte le immagini delle giornata trascorsa, rivedevo gli occhi di mio figlio che mi chiedevano in silenzio “ma perchè tutto questo”, e il ripensare alla mia falsa sicurezza di quei momenti per cercare di dargli fiducia mi faceva sentire quello che non sono mai stato, una persona falsa, e ricordarlo era doloroso.

Squillò il telefono, feci un balzo e presi la cornetta per rispondere ma una voce registrata mi diceva che era ora, dovevamo alzarci, nonostante tutto ero riuscito ad addormentarmi, anche se avevo visto albeggiare, chiamai Patrizio che si svegliò abbastanza bene, e dopo poco eravamo a fare colazione, e cosi iniziò il secondo giorno di controlli.

Arrivati in clinica, dopo il solito percorso attraverso l’archivio, arrivammo alla stanza dove Patrizio doveva fare delle analisi, ci aspettavano e garbatamente come sempre ci chiesero come era andata la giornata e se durante la notte ci fossero stati problemi, rispondemmo che era andato tutto bene.Tolsero a Patrizio il registratore portatile per controllarne la registrazione e ci informarono su quello che avrebbero fatto, dicendomi che le registrazioni e gli esami che avrebbero fatto sarebbero durati abbastanza, e che se volevo potevo andarmene e tornare dopo qualche ora; non ci pensavo nemmeno, non mi sarei allontanato nemmeno se me lo avessero ordinato, e dissi di non preoccuparsi di me, che io avrei aspetto lì, indicando delle sedie in una stanzetta che fungeva da sala d’attesa e cercando di dimostrare sicurezza mi sedetti aprendo il giornale.

Portarono Patrizio nella solita stanza, dove c’era un letto dei macchinari e dopo poco arrivò la dottoressa Sforza che mi venne a salutare chiedendo anche lei informazioni, le dissi che era tutto a posto ma che io avevo molte domande da porre alle quali avrei voluto una risposta, sorrise e sempre con la solita calma e filo di voce mi disse: “dopo la prima registrazione parliamo un po’ io e lei” e sparì nelle altre stanze.

Passai la mattina fra un caffè e una pagina di giornale, ogni tanto Patrizio usciva dalla stanza, lo potevo vedere e nonostante tutti quei fili sembrava che sopportasse bene tutto quello che gli facevano, finalmente la dottoressa Sforza tornò e chiamandomi nel suo ufficio, cominciò a informarmi su quanto aveva potuto vedere dalla registrazione del registratore portatile e da quella fatta nella mattina, tutto indicava che Patrizio fosse affetto da questa malattia chiamata Narcolessia.

Non riesco a spiegare come mi sentivo, finalmente la malattia di Patrizio aveva un nome, ma adesso che sapevo il nome della malattia cosa avevo ottenuto se non c’erano cure per guarire mio figlio? Avevo mille domande in testa ma tutte si bloccarono al pensiero che Patrizio non sarebbe mai guarito, la montagna di cui ho parlato in precedenza si presentò ancora più grande e difficile da scalare, cosa fare? come dire a Simonetta che nostro figlio era condannato a vivere dormendo in continuazione? Mi scoppiava la testa, riuscii soltanto a balbettare alcune parole che ricordo, chiesi: “se non esistono cure per mio figlio a cosa è servito avere una diagnosi?”, penso che la mia rabbia verso il mondo mi si leggesse in volto, la dottoressa Sforza sempre con la sua voce bassa e calma mi disse: “no, non esistono farmaci per la narcolessia, possiamo soltanto tentare di dargli un aiuto con dei farmaci dei quali sfruttiamo gli effetti collaterali”, poi aggiunse: “stanno sperimentando un nuovo farmaco ma per adesso in Italia non esiste, vedremo se riusciamo in qualche modo ad averlo”.

Quei giorni a Bologna furono per me una continua ricerca d’informazioni, appena avevo occasione di parlare con la dottoressa Sforza o con dei suoi collaboratori li tartassavo di domande per capire il più possibile sulla malattia, chiesi anche dove potevo trovare informazioni ma le indicazioni portavano a studi tutti maledettamente in inglese, lingua che io non conosco.

I giorni di studio su Patrizio finirono e le registrazioni dettero esito positivo: Patrizio soffriva di narcolessia.

Ci dissero che avrebbero controllato con maggior attenzione i tracciati della polisonnografia e poi saremmo dovuti tornare per avere una risposta definitiva, per parlare del nuovo farmaco che ancora non era in commercio in Italia, per valutare cosa si poteva fare per averlo.

Per il momento, avrebbero fatto un piano terapeutico che prevedeva l’uso di due farmaci, Deadin e Vicilan, per aiutare Patrizio, poi ci salutarono, fissandoci un nuovo appuntamento.

Di nuovo in autostrada e ancora una volta solo con i miei pensieri.

Patrizio dopo cento metri dalla clinica si era addormentato e fino a Firenze avrebbe dormito, durante il percorso verso casa, cercavo di ricordare tutto quello che la dottoressa mi aveva spiegato per continuare il discorso con Simonetta che avevo già informato con poche parole per telefono, appena a casa avrei dovuto spiegare tutto di quei giorni e di quanto detto dalla dottoressa.

Mi restava difficile ricordare tutti i particolari di quei giorni trascorsi a Bologna, non tanto per la quantità di cose da ricordare, ma perchè la prima cosa che mi tornava in mente e che faceva scivolare in secondo piano tutte le altre, era che Patrizio non poteva guarire.

Questo chiodo fisso si presentava ogni qualvolta parlavo con i medici del centro del sonno e mi distoglieva dal seguire le loro spiegazioni che dovevo farmi ripetere, come se il mio cervello subisse un corto circuito e in quel momento non fosse capace di seguire i loro discorsi.

Nonostante tutto riuscimmo ad affrontare la situazione in modo costruttivo, Patrizio non sembrava molto preoccupato e il suo atteggiamento ci diede coraggio e pensammo che tutti assieme avremmo potuto affrontare il problema nel modo migliore.

Dopo un paio di settimane tornammo a Bologna, la dottoressa Sforza ci disse che l’unico modo per ottenere il nuovo farmaco, che aveva dato buoni risultati, era quello di fare una richiesta direttamente alla casa farmaceutica francese che lo produceva, e siccome Patrizio era ancora minorenne la richiesta la dovevamo fare noi genitori. Ci spiegò che dovevamo fare una richiesta che viene chiamata ancora oggi “fornitura in via compassionevole”, in parole povere, dovevamo chiedere compassione a persone sconosciute per aiutare nostro figlio.

Mi sentii umiliato, come se a un tratto fossi diventato un mendicante, dovevo chiedere l’elemosina per un farmaco che nella mia mentalità spettava di diritto a nostro figlio, a cosa era servito il comportarmi correttamente per tutti questi anni se dopo ero trattato come una persona che non aveva diritti e doveva chiedere la compassione del prossimo, la rabbia mi annebbiava la ragione, fortunatamente Simonetta era vicino e con la sua calma mi fermò prima che iniziassi a sparlare imprecando.

Non sarei mai riuscito a scrivere quella lettera, tutto si ribellava in me, fortunatamente la dottoressa si presentò con un prestampato che era soltanto da compilare con il mio nome e firmarlo, questo rese la cosa meno penosa almeno per me.

Ma come dice il proverbio, le disgrazie non vengono mai da sole, in quella circostanza la dottoressa Sforza ci comunicò che a breve sarebbe andata via dall’Italia non spiegandoci i motivi che la portavano a tale scelta, dalle sue parole intuimmo che non avendo spazio per crescere era costretta a espatriare per continuare la sua carriera.

Questa notizia ci turbò, non avevamo conosciuto altri medici che si occupavano di narcolessia, saremmo di nuovo rimasti soli e senza nessun riferimento. Facemmo immediatamente presente le nostre paure alla dottoressa che ci tranquillizzò dicendo che sarebbe stata sostituita da un altro valido dottore.

Erano passati cinque lunghi anni che ci avevano stancato fisicamente e mentalmente, il risultato ottenuto dopo tutta queste ricerche non era quello che speravamo, l’unica cosa positiva era che non saremmo dovuti più andare alla ricerca di una diagnosi.

Da quel momento pur essendo stati informati sulla cronicità della malattia, cominciammo indirizzare le nostre energie per cercare una soluzione definitiva al problema narcolessia.

Mi accorsi allora di quanta ignoranza esisteva sulla conoscenza delle malattie rare, ma una cosa mi fu subito chiara, queste persone interessavano soltanto ad alcuni ricercatori che si erano dedicati allo studio di queste patologie, ma sia alla medicina generale che alle istituzioni questa malattia non interessava.

Iniziammo una ricerca d’informazioni in tutte le direzioni, ma pareva che l’unico malato in Italia fosse mio figlio, com’era possibile? Se esisteva un centro del sonno e se una casa farmaceutica aveva fatto ricerca per un farmaco, dovevano esserci altri malati come mio figlio e allora dov’erano?

La risposta a questa domanda la poteva fornire soltanto la dottoressa Sforza, quindi ci ripromettemmo di chiederle informazioni al prossimo incontro.

Finalmente arrivò il farmaco, la casa farmaceutica Lafont aveva accettato di farci questo favore e per compassione ci forniva il farmaco tramite il centro del sonno, quindi dovevamo ogni mese tornare a Bologna a prenderlo.

Mi resta difficile trovare le parole adatte a spiegare come mi sentivo e come mi sento oggi, a ricordare quei giorni, ero felice perché forse il farmaco poteva aiutare Patrizio, ma come uomo mi sentivo un fallito, nonostante avessi un lavoro, fossi rispettoso delle leggi pagando tutte le tasse che mi spettavano, non avevo niente in cambio dallo stato che con il mio lavoro contribuivo a mantenere, DOVEVO chiedere l’elemosina a un’altra nazione per aiutare mio figlio.

Tornammo di nuovo a Bologna, la dottoressa spiegò a noi e a Patrizio come assumere il farmaco e ci disse di tenerla informata telefonicamente su tutti i cambiamenti che potevano esserci, compresi gli effetti collaterali se presenti, come di consueto io cominciai a chiedere informazioni sul farmaco, ma anche la dottoressa era alle prime esperienze e sapeva soltanto le informazioni date dagli studi prodotti dalla casa farmaceutica.

Avevo letto da qualche parte che si ipotizzava che nei gemelli monozigoti la narcolessia doveva essere presente in entrambi e questo ci turbava molto, quindi chiesi se lei aveva informazioni in merito, ci fece presente che seguiva già due o tre narcolettici come Patrizio e che i loro gemelli non avevano la narcolessia, spiegò che questa era una teoria di un ricercatore se non ricordo male americano al quale aveva già fatto presente che i suoi dati sui gemelli erano decisamente diversi, quindi ci disse di stare tranquilli che non c’era la certezza che anche Tiziano fosse colpito dalla malattia.

Di nuovo in autostrada, mentre Patrizio come al solito dormiva, io e mia moglie cominciammo a parlare del farmaco e delle speranze che ponevamo in esso, ma allo stesso tempo eravamo preoccupati per le poche informazioni che erano reperibili, l’unica cosa che ci faceva sperare era la fiducia che avevamo nei confronti della dottoressa Sforza.

Patrizio iniziò la cura, il farmaco cominciò ad avere effetto dopo alcuni giorni, noi ci aspettavamo grandi cose da quelle pillole che in realtà aiutavano nostro figlio ad essere più presente, ma gli attacchi di sonno erano sempre presenti tutti i giorni anche se dilatati nel tempo; pensavamo che giunto alla dose ottimale tutto si sarebbe risolto, ma dimenticavamo quanto detto dalla dottoressa: questa non era una soluzione ma un aiuto.

Arrivò di nuovo il momento di tornare a scuola, e finalmente questa volta avremmo potuto spiegare ai docenti cosa avesse nostro figlio, evitando che si facessero false idee. Chiesi un appuntamento alla preside del liceo artistico per informarla sulle novità che c’erano, mostrandole la certificazione le chiesi d’informare tutti i docenti.

La signora mi chiese di nuovo se volevo certificare mio figlio, per avere forse un insegnante di sostegno, le feci presente che non era necessario, Patrizio poteva frequentare la scuola senza problemi, bastava soltanto capire che i suoi tempi erano diversi e che se si fosse addormentato, non era perché faceva tardi la sera o per pigrizia, tutto ciò era dovuto a una strana malattia chiamata Narcolesia, le feci presente anche la mia disponibilità a parlare con tutti i docenti, per informarli sulla malattia.

Pensavamo così di non avere più il problema degli anni passati, dove negli incontri con gli insegnanti ci sentivamo dire che Patrizio dormiva durante le lezioni e noi non sapevamo dire il perché suscitando in loro molta perplessità, sembrava che volessimo nascondere qualcosa, adesso dopo la diagnosi e con il farmaco che doveva assumere anche in orario scolastico, pensavamo che almeno questo problema si fosse risolto.

Niente di tutto ciò, con il cambio di alcuni docenti il problema si ripresentò, fui chiamato dalla professoressa di matematica, che si precipitò a dirmi che mio figlio non andava bene nella sua materia, che era distratto, non seguiva le sue spiegazioni, anzi a volte si addormentava, continuò facendomi presente che lei aveva insegnato all’università e un monte di altre cose, senza darmi la possibilità di parlare, la lasciai sfogare e quando mi permise di parlare, le feci presente che mio figlio, come molti dei suoi compagni, non era molto portato per la matematica, e forse anche per questo si era iscritto al liceo artistico, ma precisai che non era una scusa, doveva impegnarsi lo stesso. Per il problema dell’attenzione e degli eventuali addormentamenti, le chiesi se la preside l’aveva informata della malattia di mio figlio, poiché a causa della malattia, poteva accadere che si addormentasse durante la lezione.

Lei mi guardò con un sorriso ironico, e, con un tono di sufficienza, disse queste testuali parole: “Signor Ceretelli, cosa vuol nascondere con quel certificato?”

Non credevo alle mie orecchie, una rabbia violenta s’impossessò di me, mi alzai in piedi e cercando di dominarmi, le chiesi: “Mio figlio le ha mai mancato di rispetto?”

Lei rispose: “no, ci mancherebbe!”

“Allora” aggiunsi, “pensa che mio figlio sia un tossico e che io voglia nasconderlo”, rimase in silenzio, il che mi fece arrabbiare ancora di più e guardandola direttamente negli occhi le dissi: “vado via, altrimenti la prendo a schiaffi fino a quando non chiede scusa.

Bocci pure mio figlio nella sua materia, ma lo faccia perchè veramente va male e non per i suoi pregiudizi, altrimenti ci rivedremo in tribunale”, poi aggiunsi con cattiveria “sa perche mio figlio si addormenta quando lei spiega? Perchè le sue spiegazioni devono essere presuntuose e noiose come lei”, la salutai sbattendo la porta.

Chiesi alla segreteria di chiamarmi subito la preside, facendo presente che se non mi avesse ricevuto, sarei andato subito alla Pubblica Istruzione a denunciare il caso, mi chiesero d’abbassare la voce, di calmarmi e che la preside appena congedata la persona con la quale stava parlano mi avrebbe ricevuto.

Passarono alcuni minuti che furono terapeutici per la mia rabbia, e mi permisero di riordinare le idee, appena fui chiamato in direzione, la preside che penso si fosse già informata mi chiese con un sorriso cosa fosse successo, io senza rispondere alla sua domanda le dissi: “la professoressa di matematica ha dei pregiudizi contro mio figlio, si è permessa di dire parole offensive nei miei confronti, chiedendomi cosa voglio nascondere con quel certificato che le ho presentato, la prego di non chiamarmi più per un colloquio con lei e come ho fatto presente alla professoressa, la informo che qualora continuasse con il suo atteggiamento ostile nei confronti della malattia di mio figlio io denuncerò lei e l’istituto”, la salutai e senza attendere una sua risposta feci per uscire.

Garbatamente la preside mi chiese di restare perché voleva capire cosa fosse accaduto e mi chiese, con modo gentile, se avevo capito bene quello che la professoressa aveva detto.

Le feci presente che pur non essendo laureato, l’italiano io lo capivo bene, al contrario della docente di matematica che metteva le doppie dove non servivano, quindi, nonostante il suo lessico, quanto da lei detto non si poteva confondere, la salutai di nuovo rinnovando le mie intenzioni e me ne andai.

Le sorprese non erano finite, erano passati un paio di mesi da quando Patrizio aveva iniziato a prendere il nuovo farmaco, quando ci giunse una telefonata con cui ci chiedevano di tornare a Bologna perche la dottoressa Sforza era andata via e il nuovo medico ci voleva conoscere per parlare della cura e di come continuare a ottenere il farmaco dalla casa farmaceutica francese.

Preoccupati e con la curiosità di conoscere un altro dottore che si interessava della malattia, andammo di nuovo a Bologna; scendere ancora una volta quelle scale che portavano nel seminterrato, fece riaffiorare in me tutti i momenti di sconforto che avevo vissuto in quei tre giorni di analisi, ma la cosa che mi pesava più di tutto, era quella di far vedere che tutto era tranquillo e che si poteva affrontare, mentre dentro di me la rabbia verso il mondo intero era sempre al massimo.

Arrivati giù nel seminterrato, fummo accolti come al solito gentilmente dalle persone che già conoscevamo e finalmente incontrammo il nuovo dottore che avrebbe sostituito la Sforza.

Ci trovammo davanti ad un giovane con una folta barba, che con modi garbati si presentò dicendo: “Buongiorno sono il Dr Giuseppe Plazzi” e spiegandoci che sarebbe stato lui a seguire nostro figlio nella sua malattia, cominciò a chiederci informazioni. Io come al solito iniziai a parlare e oltre a rispondergli lo tempestai di domande, mi accorsi che forse lo stavo mettendo in difficoltà, non tanto per le domande ma per il modo in cui lo incalzavo, forse avrà pensato che oltre a curare Patrizio per narcolessia avrebbe dovuto curare anche me per nevrosi.

Nonostante tutto, alla fine eravamo tutti soddisfatti per il rapporto sincero che si era creato in quei pochi momenti, penso che da quella prima esperienza sia scaturita in lui e in me quella voglia di collaborare che ancora oggi ci accompagna.

Iniziarono i viaggi mensili per ritirare il farmaco e durante quei brevi incontri cominciai a chiedere a Plazzi tutto quello che non avevo potuto sapere dalla sua collega: se vi erano altri malati, se potevamo incontrarci con altri genitori che avevano il nostro stesso problema, come potevamo aiutare nostro figlio.

In uno di questi incontri venne fuori l’idea di fondare un’associazione, vi erano altri genitori e pazienti che avevano le mie stesse esigenze, era importante conoscere altri malati per confrontarsi con loro, perciò decidemmo assieme a Plazzi di far presente a tutti loro la nostra intenzione di associarsi e furono invitati presso la clinica per discutere sul da farsi per fondare l’associazione.

Quella giornata non me la scorderò mai, se non fosse stato per i grossi problemi che ci affliggevano, ci sarebbe stato da ridere. Come certo sapete la narcolessia può essere causa di situazioni grottesche, che possono sconfinare nell’ilarità: ritrovarsi in uno studio notarile, nel primo pomeriggio, dove il notaio soffre di eccessiva sonnolenza diurna, a causa delle OSAS “apnee ostruttive del sonno”, e sei giovani narcolettici che devono prestare attenzione alla lettura dell’ atto costitutivo e relativo statuto, fu un’avventura.

Oltre alle pause richieste per delucidazioni, vi erano le pause fisiologiche del notaio e dei narcolettici che per seguire si muovevano in continuazione per non addormentarsi. Nonostante questi problemi, arrivammo a definire tutto, la presidenza, la vice presidenza, segretario e cassiere, che ebbe come primo compito quello di chiedere ai presenti i soldi per pagare l’iscrizione dell’associazione che se non ricordo male era di lire 500.000.

Uscimmo felici dallo studio notarile, avevamo la nostra associazione, ma in verità non avevamo idea di cosa bisognava fare, ma tutto questo non ci turbava affatto.

Da quel momento trascorsero altri tre anni nei quali abbiamo cercato con tutta la nostra inesperienza di far funzionare l’associazione, ricordo ancora le prime assemblee nazionali, dove i medici erano più dei soci, ma questo non ci turbava, avevamo la certezza di fare la cosa giusta e pensavamo che prima o poi, saremmo stati molti di più.

E così siamo andati avanti, fino al 2001 quando la narcolessia è stata riconosciuta malattia rara dal DM 297: questo comportava il dover partecipare presso l’ISS alle assemblee indette dall’istituto, essendo nel frattempo diventato presidente dell’associazione e l’unico disponibile, toccava a me partecipare e questo mi creò un po’ di timore.

Ricordo quanta ansia avevo la prima volta che arrivai davanti a quell’ingresso imponente dove le persone che entravano pareva che si conoscessero tutte, per non parlare dei titoli accademici di tutti i relatori che si susseguivano, ci voleva più tempo a presentarli che ad ascoltare quello che dovevano dire, non sono mai stato un timido ma devo dire che essendo lì, a rappresentare altre persone, volevo capire come comportarmi prima di aprire bocca. Non era facile perché molte cose che ascoltavo mi erano completamente sconosciute, tanto per fare un esempio non sapevo cosa significasse “farmaco orfano”, altre mi facevano abbastanza rabbia, perché pur non conoscendo le altre malattie, i relatori parlavano di tutto tranne che dei problemi che forse ci erano comuni, come la mancanza di farmaci, la ricerca, l’assistenza .

Trascorsero diversi mesi, durante i quali rimasi in silenzio a prendere appunti e ad ascoltare, poi mi resi conto che tutti quei dotti in fatto di Narcolessia e congiuntivi ne sapevano meno di me, allora decisi: da quel momento non sarei stato più zitto e assieme ad altri genitori, rappresentanti di altre malattie rare, iniziai a proporre le nostre richieste.

Da allora non è cambiato molto per i narcolettici, quello che c’è di positivo è che la parola narcolessia non è più così sconosciuta, grazie a tutte le campagne d’informazione che abbiamo fatto. Siamo riusciti a farci conoscere ed iniziare così la vera battaglia per il futuro dei narcoletici.

A distanza di tanti anni, devo confessare che ancora oggi, a ogni diagnosi di un giovane narcolettico, rivivo assieme ai loro genitori le angosce e le preoccupazioni, le paure che si presentarono a me, a suo tempo, e spero che la mia esperienza possa dar loro fiducia per il futuro.

Questo credo sia il motivo principale che mi fa continuare a occuparmi di narcolessia, cosciente che forse mio figlio non avrà la fortuna di trovare soluzione al suo problema, ma altri più giovani di lui potranno magari un giorno vedere sconfitta questa malattia.

Tutto questo percorso ed i traguardi ottenuti dall’Associazione Italiana Narcolettici ed Ipersonni, sono stati possibili grazie alle persone che ci hanno aiutato. Pur sapendo che non sono interessati a essere nominati, non posso fare a meno di ringraziarli per il loro fondamentale sostegno.

Un grazie al dr. Sergio Dompè, che ci ha aiutato a muover i primi passi, ai suoi collaboratori, che mi hanno fatto sentire uno di loro, in tutti gli incontri che abbiamo avuto.

A Silver e alla Mck, per averci dato la possibilità di usufruire del suo magico personaggio “ Lupo Alberto” per lo spot e per i volantini che hanno permesso a molti narcolettici di riconoscersi e arrivare alla diagnosi.

A Marco Ghinelli, che ci ha aiutato nelle prime campagne d’informazione.

Allo scrittore Diego Galdino, che con il suo romanzo, Il Cardo di Yosemite, ha contribuito a far conoscere la narcolessia, parlando della malattia con garbo e serietà.

A Johngaethe Visenti, ai suoi collaboratori, Adelaide Corbetta, Annamaria Tartaglia, all’agenzia Forchets.

Grazie a loro si è potuta realizzare la nuova campagna d’informazione e il nuovo spot.

Alla Dr.ssa Francesca Ingravallo, Medico-legale, che è sempre stata disponibile a rispondere a tutte le nostre domande.

Un Grazie al dr. Giuseppe Plazzi che ci è sempre stato vicino con i suoi validi collaboratori, dr Christian Franceschini, dr.ssa Francesca Poli, dr Fabio Pizza, dr Keivan Kavhe, e che ancora oggi è un nostro valido sostenitore.

Infine un grazie a coloro che in qualsiasi modo hanno contribuito a far crescere la nostra associazione, mi è impossibile ricordarli tutti, ne cito un gruppo che ci ha aiutato a raccogliere i primi fondi per sopravvivere, la Famiglia Faggi e le Donne di via del Fossetto.

Gli occhi di mio figlio – di Mamma Michela

Gli Occhi di mio Figlio

di Mamma Michela

Luca a tre anni cantava “ Fratelli d’Italia” e soffiava dentro la sua trombetta divertendo tutti i coinquilini.

Luca a scuola era sempre attento, interagiva, partecipava a tutte le gite, a tutte le feste; era timido, ma sempre pronto a dire una parola in soccorso dei compagni che magari in quel momento avevano subito un torto.

La scuola elementare…… sempre solo elogi ai colloqui con gli insegnanti; a volte mi sentivo persino in imbarazzo….

Luca umile, Luca generoso, Luca sensibile, forse anche troppo.

Poi è arrivata la passione per lo Judo. Gli allenamenti, le gare, le medaglie, gli abbracci del maestro Danilo, che per Luca valevano più di qualsiasi trofeo.

Lo Judo.. Negli occhi di mio figlio il podio delle Olimpiadi: un sogno, certo, ma che soddisfazione vedere i suoi occhi che brillavano dopo ogni gara!

LA NOTTE ALL’IMPROVVISO: la notte di notte e la notte di giorno.

Non più sogni, solo incubi, ad occhi chiusi e ad occhi aperti: ALLUCINAZIONI. Narcolessia e una forte cataplessia.

Non voglio descrivere i sintomi, vorrei far parlare il cuore, ma non è facile, perché il mio cuore non è ancora pronto per dettarmi le parole giuste.

GUADAVO GLI OCCHI DI MIO FIGLIO e sapevo cosa sognava, cosa lo divertiva e quando passavano nuvole tristi.

Adesso i suoi occhi sono sfuggenti e a volte sono io che cerco di non guardare il suo sguardo deluso.

La narcolessia toglie i sogni…. eh sì!

I sogni ad occhi chiusi e quelli ad occhi aperti, Lei li tramuta in incubi.

UN FARMACO, grazie a Dio, grazie ai medici: Luca può dormire di notte, riposare, non ha più le allucinazioni, GRAZIE!

In questo sonno “provocato” c’è posto per i sogni belli, quelli dei bimbi e dei ragazzi? Luca non sogna o non ricorda? Chissà!

Come vorrei potermi immergere nel suo sonno solo per una notte, per sentire, per provare a capire, ma non posso.

Buonanotte Luca, ti voglio bene”, mi stringe forte …..

“Ti voglio bene anch’io, mamma, te ne voglio tanto, buonanotte, a domani”.

DOMANI… Nell’abbraccio di ogni sera sento la paura, la speranza, un miscuglio di sensazioni, un’empatia che condivido in silenzio.

In silenzio, come arriva Lei, la narcolessia.

In silenzio, come Lei vuole, tu annienti le emozioni e la cataplessia.

Negli occhi di mio figlio voglio rivedere la gioia delle emozioni, la speranza di poter vivere i suoi sogni, di poter sognare ancora.

I sogni per il futuro, quelli quando potranno realizzarsi?

VORREI URLARE per Luca, per me, per tutti i ragazzi e le famiglie che vivono con Lei, quest’ombra che ti avvolge e ti sconvolge la vita.

DOBBIAMO GRIDARE tutti assieme, ma gridare forte, perché ci dicono sempre che siamo pochi, allora urliamo più forte:

“noi ci siamo” non riuscite a vederci, non volete sentirci, URLEREMO ancora più forte, per dirvi che abbiamo diritto alla SPERANZA e la pretendiamo. La speranza si chiama RICERCA!

Voglio vedere negli occhi di mio figlio la gioia di ridere senza la paura di cadere.

Mamma Michela

NB. Avevo letto due frasi che ho stampato nell’anima, le dedico a tutti noi.

“A volte lo sguardo si trasforma in emozione.

Istanti unici, conservati da chi sa osservare,

diventano emozioni condivise”.

“Aveva gli occhi di chi ne ha passate tante 

e il sorriso di chi le ha superate tutte”.

 

L’Orgoglio di una Madre – di Mamma Anna

L’Orgoglio di una Madre

di Mamma Anna

Mi chiamo Anna e sono la mamma di Sara che come molti di voi ha la Narcolessia.

A dire il vero non saprei quando è iniziato tutto, sia io che mio marito abbiamo sempre visto Sara come una pigra, fin da bambina quando a 5/6 anni i bambini camminano, lei voleva stare sul seggiolino e dormiva sempre.  Avendo vissuto questa situazione da sempre, noi genitori ci siamo “abituati all’idea che fosse una pigrona viziata e capricciosa e confesso che ancora adesso un po ci sentiamo in colpa.

Mio marito ha sempre fatto di tutto per farla uscire con gli amici a divertirsi ma lei se ne stava sempre chiusa li, in quella camera 4×4 a scrivere, disegnare o suonare. Proprio al riguardo noi vedevamo qualcosa di strano in Sara, nel senso che da genitore qualche domanda te la poni: c’è qualcosa che non va?

La domanda ti viene spontanea. Com’è possibile che vada bene in Italiano, Storia, Geografia e dorma durante le ore di educazione fisica, matematica, religione e scienze? Lo fa di proposito? Gli insegnanti ci dicevano di metterla a letto prima, che era una ragazza molto sensibile ma molto distratta. Quando poi andavamo a prenderla a scuola entrava in macchina alle 13:00 ed alle 13:02 era già nel mondo dei sogni. Arrivati a casa si pranzava insieme e senza troppi complimenti appena finiva andava dritta a letto. Ovviamente in casa non ha mai aiutato e nemmeno mai si è proposta di farlo. Ma tutto questo era la parte “leggera”. La parte pesante veniva con la notte. Spesso si svegliava e aveva delle visioni spaventose che confesso a volte mi mettevano a disagio. Sapete, vivere in casa con una persona che sente e vede i demoni che la vogliono portare via in piena notte e vive l’esperienza come fosse reale non è una cosa da poco e un po di paura te la mette. Vi lascio immaginare in che condizioni fossimo la mattina dopo io e mio marito. So che può sembrare ridicolo ma per questo motivo abbiamo cambiato tre case nei primi 7 anni di vita di Sara.

Con l’età speravamo migliorasse invece con la pubertà è arrivato il caos in casa nostra. Tutto si poteva dire ma non che ci fosse serenità. Lei rispondeva sempre male, non parlava più con noi, e nel periodo in cui tutti hanno mille amicizie, escono, vogliono il motorino, lei era sempre li, a scrivere, leggere libri e ascoltare musica in camera sua.

Dopo qualche tempo mio marito aveva intuito ci fosse qualcosa infatti ricordo esattamente le sue parole: “Sara non è come le altre ragazze, lei è diversa e a quanto pare lei lo ha capito, forse dovremmo capirlo anche noi e cambiare approccio”. Col senno di poi io ammetto che avesse ragione ma in quel momento coi professori delle medie che mi dicevano che dormiva in classe, con lei che si dedicava ai libri e non alla scuola, che non aiutava in casa, e non parlava con noi, non volevo trovare alcuna giustificazione al suo comportamento.

Finite le medie sono iniziate le superiori e Sara ha scelto di sua iniziativa di fare il Liceo Classico. Non so che cosa l’avesse spinta a scegliere quell’indirizzo ma a quanto pare aveva le idee chiare sul suo percorso per cui noi genitori come sempre abbiamo supportato la sua decisione. Ma i problemi sono iniziati subito. Sara non riusciva a stare sveglia. Si addormentava alla fermata del bus, o persino nell’autobus e invece che arrivare a scuola o tornare a casa, dovevo andare a prenderla in giro per la città o al deposito degli autobus. Un disastro per il mio lavoro, che per forza di cose ho dovuto chiedere di ridurre a part time. Nel frattempo Sara nonostante avesse finalmente qualche amica, era ingrassata tantissimo. Inizialmente eravamo felici di vederla un po in carne perchè da piccola era magrissima ma dopo un po era molto in sovrappeso e si vedeva chiaramente come la cosa influisse nei suoi rapporti sociali.

Dopo diverse visite con un diversi specialisti è emerso che aveva la glicemia alta e doveva calare di peso. I medici dicevano che la sonnolenza probabilmente era dovuta al peso che comprimeva i polmoni e le causava apnee durante il sonno. E così abbiamo cercato di metterla a dieta senza ottenere risultati.

Tra l’altro in questo periodo abbiamo visto che non rideva mai, era come apatica. Una sera dopo cena, io e mio marito eravamo seduti sul divano mentre lei era per terra con le gambe sotto al tavolino. Stavamo guardando Mister Bean (si scrive così?) e stavamo ridendo tutti finchè lei ha avuto un cedimento di punto in bianco e ha sbattuto i denti contro il tavolino fortunatamente senza romperseli.

Quell’episodio ci ha spaventati molto, anche perchè se ne sono verificati altri, molto meno intensi, ma si vedeva quando era arrabbiata che i muscoli del viso sembravano cedere fino a renderle difficoltoso esprimersi. Essendo totalmente incompetenti in ambito medico le abbiamo fatto fare diverse visite e alcune risonanze magnetiche ma non è risultato mai nulla di anomalo. Siamo stati insieme diverse volte anche da uno psicologo che ha aiutato a ristabilire la comunicazione in casa ma non ha saputo aiutarci con la sonnolenza, le visioni e i cedimenti emotivi.

Ancora una volta di sera, in un giorno come tanti davanti alla TV, tra mille pubblicità insignificanti è passato lo spot dell’AIN con Lupo Alberto. Io sono scoppiata subito a ridere e ho detto: “Sara ma quella sei tu!” Sara come al solito ha avuto un cedimento sul divano. Ma mio marito mi ha guardato finchè ridevo dicendo: “scusa ma se fosse davvero Narcolessia?”. Io forse per rassegnazione mi ero messa in testa che tutta la sonnolenza di Sara fosse dovuta al sovrappeso per cui ho ignorato la cosa e tutt’ora ringrazio Dio di avere un marito così testone. Infatti il giorno dopo, a mia totale insaputa, mio marito si è messo in contatto con il dott. Ceretelli e ha prenotato una visita per Sara all’ospedale di Bologna.

Alla prima visita io ero tentata di intervenire ma per la prima volta ho visto Sara parlare dei suoi sintomi e dall’altra parte il dott.Plazzi pareva leggerle nel pensiero, le faceva domande sui sintomi che aveva e pareva conoscere Sara alla perfezione.

Ci hanno dato appuntamento una settimana dopo. Gli esami sarebbero duranti 3 giorni nei quali sara ha chiesto espressamente di stare da sola. Ovviamente io e mio marito abbiamo preso un hotel in zona in caso avesse avuto bisogno. Alla fine di tutto il dott.Plazzi ci ha detto che era senza dubbio Narcolessia con Cataplessia. E che è una malattia dalla quale non si guarisce. Ci ha spiegato tutto dei sintomi e in un mix tra disperazione e ansia abbiamo iniziato a vederci chiaro. Sara aveva 18 anni quando è stata diagnosticata e da allora sono passati 9 anni.

In questo periodo Sara ha trovato una terapia farmacologica che le permette di dormire la notte, è dimagrita molto ed è stupenda ora, è molto più attiva, molto più solare, ha appena finito l’Università e convive col suo ragazzo da 3 anni.

La prossima battaglia sarà trovare lavoro, le piacerebbe insegnare e con la sua forza di volontà, dopo aver imparato ad affrontare la malattia a testa alta, sono sicuro ce la farà. Posso solo dire che come genitori siamo orgogliosi di lei. E dobbiamo ringraziare l’associazione per averci messo in contatto col dott.Plazzi e per aver organizzato tutti gli incontri con gli altri ragazzi narcolettici e coi genitori che ci hanno dato più fiducia nel futuro e fatto capire che Narcolessia è solo il nome dato ai sintomi che Sara ha da tutta la vita, e solo sapendo chi è il tuo nemico puoi affrontarlo.